Nessuno immaginava un futuro lontano. Al contrario, tutti immaginavamo di essere gettati in un mondo ostile, estremamente vicino, ormai in grado di toccarci e di mescolarsi alle nostre vite. Schiacciati, a tal punto da essere privati di ogni altra immagine, di ogni altro possibile. Presi in un grande grido collettivo, urlavamo: “la catastrofe è imminente!”. Privati della capacità di liberare un altro possibile, qual era allora il ruolo dell’arte? Quale il luogo che si trovava ad abitare? Esso era al di là, al di qua, o immanente alla creazione del possibile. Sia il luogo dell’arte al di là, essa aveva allora il compito di immaginare un’utopia, un futuro possibile che fosse in grado di rompere definitivamente con questo mondo. Un “mondo dietro al mondo”, per dirla con Nietzsche. Sia al di qua, l’arte aveva il dovere di denunciare il mondo presente, magari per preparare l’avvento di un futuro indeterminato. Sia immanente, l’arte non era altro che un puro mezzo, un accesso a un piano nascosto (ma non inattingibile) del reale, tale da esporre l’involuzione di un simile piano di realtà, proprio mentre questo si produceva.
Visitare le sale che danno vita alla esposizione della 8th Yokohama Triennale. Wild Grass: Our Lives, significa porre in questione il luogo dell’arte e, assieme, in maniera più che congiunta, chiederci qual è ormai un abitare possibile. Un “ormai” che è un “ora” velato di rimpianto, perché pare, camminando per le sale dell’esposizione, che non ci sia più nulla da fare – che ogni agire per costruire un futuro sia per noi, ormai, una faccenda del passato. Rimpianto, appunto, e nient’altro che rimpianto per ciò che è stato. Ogni immagine sentita come pianto ripetuto di un mondo che volge alla fine. Supplizio che si colora di bellezza ferma, che gode di un’immaginazione immobile. Al centro della prima sala incontriamo un’esposizione circolare di testi, una bibliografia alla fine del mondo, o per la fine del mondo. Chi leggerà questi testi in formato digitale, alla fine del mondo? Da Saito Kohei, passando per Bjork e Timothy Morton, fino ad arrivare a Judith Butler, David Graeber, Kōjin Karatani, Hajime Matsumoto, Wang Hui, ecc., ogni testo era disponibile per la lettura, sormontato, al contempo, dai mostri intessuti di Sandra Mujinga, Unearthed Leaves. Quasi-oggetti, di un rosso intenso, sospesi in aria, ma dissotterrati, contemporaneamente, dalle profondità di un passato preistorico e dalle siderali posteriorità di un futuro remoto, consegnatoci dalla science fiction. Tra questi due tempi, il presente intrecciato dalla filatura. Un presente costitutivamente incoglibile: monito per l’intera esposizione. Ai piedi delle “creature” di Mujinga, sfilava contenuto in una serie di monitor un albero caduto, realizzato da Özgür Kar (Fallen Tree): un soundscape la cui voce, come di mosche vibranti, ci riportava alla domanda sull’azione alla fine del mondo. Più nulla da fare, ma per chi? Certo non per le mosche.
La Triennale di Yokohama, già dal suo titolo (Wild Grass: Our Lives) sembrava suggerire la risposta alla nostra domanda: a non aver più niente da fare siamo noi, forme di vita umana. Ciò equivale a dire che l’arte non può che fallire dal momento in cui si dà come un al di qua o come un al di là dalla vita. Ossia, essa fallisce nell’istante in cui si pensa come un gesto di altro ordine, separato dalla vita. Ma, come tale, l’arte può pensarsi in maniera immanente alla vita? Continuando a camminare per la sala centrale dell’esposizione della Triennale non potevamo fare a meno di imbatterci negli accampamenti temporanei realizzati da Joar Nango (Ávnnastit/Harvesting Material Soul), un discendente Sami (una popolazione nomade della penisola finno-scandinava). Simili accampamenti sembravano far segno a un nuovo modo d’abitare, ricongiungendo le tre istanze temporali di presente, passato e futuro in un unico conglomerato. Così alla domanda quale futuro? rispondiamo: un futuro nomadico che, come recitava il messaggio in Sami scritto sulla parete esterna della mostra, «non segue strade tracciate, non si conforma a nessun ordine prestabilito». Eppure, un simile futuro nomadico (o indigeno, come scrive lo stesso Nango) in cosa verrebbe a consistere? Si tratterebbe, forse, ancora una volta, di collocarsi nel «posto sicuro» della nostalgia, come direbbe Onodera Nozomi, un cacciatore della Penisola di Oshika, nella Prefettura di Miyagi, protagonista dell’istallazione fotografica di Shiga Lieko 霧の中の対話:火, Kiri no naka no taiwa: Hi. Onodera, nell’intervista che accompagna le fotografie di Shiga, parla della trasformazione del suo mondo in seguito al triplice disastro del Tōhoku nel 2011. Qui il raccordo tra umano e ciò che umano non è – in particolar modo gli animali-non-umani, ma anche le piante e la materia inorganica – non va affatto immaginato. La possibilità di raccordo, infatti, è come una bestia feroce: sempre in agguato, si realizza da sé. Solo che il raccordo non è necessariamente positivo per quegli enti che si raccordano. Nell’incontro, infatti, è sempre anche contenuta una catastrofe possibile. In questo senso, ogni volta che nella Triennale l’incontro è immaginato, esso è immaginato nella forma della catastrofe: questo incontro è propriamente la catastrofe. Detto altrimenti, ormai non c’è compatibilità tra umano e non umano. L’immagine di un simile raccordo pare presentarsi sempre come immagine di una vita derelitta, come l’immagine che l’umano ha di una vita d’insetti (non della vita degli insetti per gli stessi insetti). Cosa significa, allora, immaginare il futuro per un essere umano? Significa immaginare una forma di vita che non è più umana (e il punto, allora, dall’ormai passa a questo non più, lasciandoci sempre inchiodati sul fronte della nostalgia). Non si tratta, però, di immaginare un’umanità generica, o qualcosa che precede l’umanità, come se fosse una forma di vita perduta alla quale ritornare; al contrario, significa immaginare una umanità dismessa, che non cancelli la propria traccia, pur prolungandosi verso un’incognita. Vale a dire, immaginare un’immagine che sia essa stessa una forma di vita vibrante, immanente alle altre. Finché l’arte immagina forme di vita umana o forme di vita perdute, semplicemente esterne alla vita umana (vale a dire, da un’altra prospettiva, pensate radicalmente a partire da quell’umanità che si vorrebbe cancellare), con le quali tentare però forme di composizione, simili forme di vita composta e ibrida non possono che risultare in una catastrofe. Non sarà allora il caso di mettere in questione la stessa arte che immagina e pensa? Può l’arte pensare, indicare o percepire il suo stesso limite? La propria disattivazione come dispositivo propriamente umano?
In fin dei conti, la 8th Yokohama Triennale sembra metterci di fronte a un simile problema di immaginazione. Più che fornire una risposta, essa funziona come uno specchio d’acqua capace di mostrare sulla propria superficie l’impossibilità di un’immagine. Tuttavia, per dirla con Lavelle (2003), uno specchio d’acqua è differente rispetto a uno specchio di vetro e metallo. Infatti, mentre uno specchio di vetro e metallo oppone una barriera alle imprese di Narciso, non facendo che ripetere la sua immagine riflessa e alienandolo da sé; lo specchio d’acqua permette anche al soggetto di immergersi, ponendolo così in contatto con la materia dell’immagine. Certamente, un simile contatto troppo ravvicinato nasconde la stessa immagine, sfocandola. Sarebbe allora il caso di comprendere se si tratta, come è umano, di prendere le distanze dalla superficie, o se procedere nell’immersione. Insomma, siamo di fronte alla domanda delle domande: il destino della forma di vita umana è comico, oppure tragico? La 8th Yokohama Triennale sembra risponderci: né l’uno né l’altro, perché al di là delle alternative depositate in una tradizione – che, ricordiamolo, è il massimo grado di fissazione formale (Cfr. Assmann 1997) – a immaginarsi è invece una vita che, come tale, non può essere contenuta in una forma.
Riferimenti bibliografici
J. Assmann, La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, Einaudi, Torino 1997.
L. Lavelle, L’erreur de Narcisse, Editions Table Ronde, Paris 2003.
8th Yokohama Triennale. Wild Grass: Our Lives, a cura di L. Ding e C. Y. Lu, Yokohama Museum of Art, Yokohama, 15 marzo 2024 – 09 giugno 2024.