“Voltagabbana fascista” lo chiamava Alberto Moravia. «Così egocentrico che se va a un matrimonio vorrebbe essere la sposa, a un funerale il morto» diceva Leo Longanesi. A chi chiedeva sue notizie, il padre rispondeva: “Ma perché vi interessate tanto a Curtino? È un tale imbecille!”. Curtino era Curzio Malaparte, che non lasciava un buon ricordo negli uomini, al contrario di quel che succedeva con le donne, forse perché ne aveva troppe e gli uomini, si sa, non perdonano certe cose.
Nato nel 1898, era diventato famoso poco più che trentenne con Tecnica del colpo di Stato e nel 1944 pubblicava il suo libro più importante, Kaputt, parte centrale di una trilogia sulla guerra che comincia con Il Volga nasce in Europa e finisce con La pelle. In quegli anni era capitano degli alpini ma anche giornalista, e si muoveva in lungo e in largo sul fronte orientale, Finlandia, Polonia, Ucraina, Romania, perlopiù al seguito della undicesima armata del generale Eugen von Schobert. Nel suo peregrinare incontra alti ufficiali, gerarchi, nobili decaduti, dandy, ambasciatori, scrittori, Himmler, ministri e capi di Stato. Dentro Kaputt ci sono la caccia ai lupi nella steppa, i soldati dell’Asse che muoiono assiderati, il ghetto di Varsavia, gli ustascia croati con le ceste piene di occhi, le feste di Galeazzo Ciano, ma è impossibile fare anche solo una lista delle avventure malapartesche, salgariane per quantità ed eccentricità.
Il libro pretende di essere il diario di un testimone ma è qualcosa di meno e di più. Di meno, perché metà del racconto sono notizie orecchiate, se non invenzioni di sana pianta (chi volesse conoscere la compulsione alla bugia del Nostro, si legga Malaparte. Vite e leggende di Maurizio Serra, ripubblicato da Feltrinelli nel 2021). Ma è anche qualcosa di più, perché, come sa chi ha fatto il liceo, l’invenzione artistica alle volte è più vera della verità storica e fa comprendere il significato di ciò che accade meglio della cronaca.
Della parola del titolo Malaparte dà una etimologia lambiccata, facendola derivare dall’ebraico koppâroth, che vuol dire vittima. A parte il fatto che non è vero, kaputt lo dicono i bambini quando vogliono rompere tutto, come il piccolo Goethe quando – è lui a raccontarlo – dopo avere distrutto i suoi giocattoli, non trovando niente di meglio da fare si mette a spaccare le stoviglie della mamma. Nel nostro caso i terribili bambini sono gli europei – soprattutto i tedeschi, che Malaparte conosce molto bene perché lo era a metà – che hanno deciso di mandarsi in rovina da soli.
Quella Europa era diversa da oggi, le sue nazioni si trovavano in piena esplosione demografica, l’età media era trent’anni, la speranza di vita attorno ai cinquanta-sessanta e doveva fare fronte a tragedie economiche che fanno impallidire le “crisi” del XXI secolo. I suoi abitanti erano pronti più o meno a tutto perché avevano poco da perdere. A rendere le cose ancora più instabili il fatto che nel continente erano di stanza la marina più potente del mondo – l’inglese –, l’esercito con le più grandi armate terrestri – il francese – e quello con le conoscenze tattiche più avanzate – il tedesco. L’Europa di Kaputt è una santabarbara che vuole esplodere e ci riesce, con la gente che assiste allo spettacolo e sbraita e balla e si ubriaca.
Che cosa, esattamente, il romanzo fa capire di quegli anni? Dipende, ognuno può trovare ciò che è capace di cercare. Tra le altre cose, spiega di che pasta è fatto l’animo fascista. Il romanzo inizia a Stoccolma, nella residenza di un principe dove c’è anche un famoso psichiatra che a bruciapelo chiede a Malaparte: «Come mai i tedeschi si stanno dimostrando così crudeli?». La risposta è spiazzante: «Sono crudeli perché hanno paura». È per paura che sono diventati dei nichilisti furibondi, pronti a distruggere tutto e tutti. La paura ha fatto dei tedeschi un popolo fascista, un popolo malato, ein krankes Volk. Ma di cosa esattamente hanno paura? Della morte? Del dolore? No, i tedeschi sono troppo coraggiosi per questo. Però hanno paura dei deboli. Gli inermi, i malati, i vecchi, i bambini, le donne li fanno tremare. I tedeschi sono il contrario degli uccelli, che volano sul campo dove c’è stata la battaglia e cantano, senza fermarsi sui rami a contemplare la strage. Il tedesco, invece, è diventato uno che vuole vedere rogne ovunque, è assediato dalla caduta, la sconfitta, la malattia, la vecchiaia, le cose che vanno in malora, la pianta che appassisce, e rimane sconvolto.
Nel caleidoscopio di un libro che accumula fatti e osservazioni senza un ordine apparente, la meditazione sulla paura è una delle poche cose che ritornano. «La paura che i tedeschi hanno dei deboli era divenuto il tema fondamentale di tutta la mia esperienza». Durante una cena a casa di Ludwig Fischer, il governatore della Varsavia occupata, il vino scioglie la lingua ai commensali che danno all’ospite italiano un’altra occasione di scrutargli il cuore e i sentimenti. Perché anche a tavola parlano soltanto di fame, freddo, fucilazioni e stragi? Per il piacere della crudeltà. E da dove viene questo piacere? Da un desiderio di vendetta sui deboli, di cui hanno paura. Avere paura dei deboli vuol dire essere invidiosi della vita. Il fascista ha paura dei deboli perché in fondo li invidia, non si capacita di come è possibile sopportare un’esistenza del genere, è convinto che lui non ce la farebbe, vede i deboli come più forti dei forti, e allora si vendica. Per questo il tedesco ha deciso di precipitarsi nell’abiezione della crudeltà, prima a parole, poi passando all’atto pratico, e senza troppi sensi di colpa, esibendo anzi il sorriso freddo e innocente che Malaparte vede nelle giovani SS, il sorriso azzurro che accompagna la innocenza crudele simile all’innocenza delle bestie.
Basterebbero queste riflessioni per fare di Kaputt un libro notevole. Malaparte è uno dei pochissimi che si sono almeno sforzati di comprendere l’animo fascista (di tutta la letteratura resistenziale si collocano alla stessa altezza alcune pagine di I sentieri dei nidi di ragno di Calvino e nient’altro). Però: cosa c’entriamo noi oggi con quella Europa kaputt? Forse il romanzo serve a metterci in guardia perché fischia il vento e il fascismo può tornare quando meno ce l’aspettiamo? Ovviamente no. La paura-invidia della vita è ancora un atteggiamento abbastanza diffuso, ma non è con la psicologia che si rifà il fascismo che, invece, ha bisogno di basi materiali precise, quelle che menzionavo prima: una esplosione demografica senza troppe speranze di attingere la soglia della vecchiaia, crisi economiche che noi neanche ce le immaginiamo, dunque legioni di ventenni arrabbiati e la presenza di un arsenale bellico cospicuo.
Oggi l’Europa ha il tasso di natalità più basso del mondo e una attesa di vita superiore agli ottanta anni, siamo un popolo di vecchietti danarosi (ogni tanto c’è la disoccupazione ma nessuno muore di fame) e militarmente siamo dei nani. Il fascismo è diventato oggettivamente impossibile. Negli anni cinquanta Stalin aveva messo in giro la voce che Hitler si era nascosto in Sudamerica e preparava la riscossa, perché sapeva che l’unico modo per tenere in vita la militanza antifascista sono le bugie e chi ci crede.
E allora? A cosa servono le riflessioni di Kaputt? Sono soltanto archeologia? Non credo, e la ragione è che possono funzionare come uno specchio in cui riconoscere l’immagine capovolta del nostro presente. I fascisti erano così impauriti e invidiosi della vita che, piuttosto di vederla consumarsi a poco a poco, preferirono incendiarla in un colpo solo. I tedeschi erano un popolo forte che ha voluto a tutti i costi ammalarsi di paura. I loro crimini furono enormi perché non conoscevano la colpa. Oggi in Europa viviamo una situazione opposta: non abbiamo paura davanti alla debolezza ma davanti alla potenza, e anche questa è una malattia. La potenza che ci fa tanta paura, inoltre, crediamo di possederla noi e invece ci è scivolata dalle mani un bel po’ di tempo fa. La nostra potenza fantastica ci fa una paura reale, provoca un senso di colpa grande come un continente e ci paralizza.
La Cina con la sua Belt and Road Initiative sta saccheggiando mezza Africa e costringe migliaia di neri a lavorare in condizioni di semischiavitù e intanto noi organizziamo il milionesimo convegno sulle ribalderie del colonialismo europeo d’antan. Gli ucraini si fanno ammazzare come mosche da Putin che vuole le risorse di ferro, manganese, titanio, cobalto e uranio del Donbass e i nostri parlamenti, incoraggiati dal papa, frenano l’invio di aiuti militari in nome della “pace-pace-pace”. Israele viene attaccato da una organizzazione terroristica nei cui piani espliciti dopo Israele viene l’Europa e noi manifestiamo contro Israele. I pirati yemeniti affondano le nostre navi commerciali e noi ci strappiamo le vesti perché nel Mar Rosso sono arrivate due cacciatorpediniere arrugginite a inscenare un simulacro di difesa.
Sono solo alcuni esempi, quelli più evidenti, del rintronamento collettivo di un popolo di vecchi che si sentono così sicuri e forti da doversene vergognare ma non hanno capito di essersi dati appuntamento al proprio capezzale e scelgono di passare il tempo flagellandosi l’uno con l’altro. La paura europea della potenza non ha le conseguenze criminali della paura tedesca della debolezza, però alla lunga avrà lo stesso effetto suicida. La catastrofe che ottanta anni fa ci siamo guadagnati facendo esplodere il sole e festeggiando oscenamente, adesso la vediamo ritornare a passi stanchi e lenti, fredda e sorniona, selenitica e minerale, burocratica e astemia. Se l’Europa avesse avuto pietà di loro – scrive Malaparte – forse i tedeschi sarebbero guariti dal loro orribile male. Oggi è l’Europa intera a essere ammalata e ad avere bisogno di pietà.
Curzio Malaparte, Kaputt, Casella, Napoli 1944.