Prima dell’esordio in solitaria, I sovversivi (1967), prima ancora dell’esordio con Valentino Orsini, Un uomo da bruciare (1962), prima della collaborazione con Joris Ivens, L’Italia non è un paese povero (1960), nei primissimi passi di Paolo e Vittorio Taviani c’è un piccolo cortometraggio documentario che, se fatto riemergere, permette di aprire stralci trasversali nell’opera dei registi, in una filmografia che vede la storia attingere a piene mani alla memoria personale e aprire «gli orizzonti dell’utopia, di nuovi mondi possibili» (Brunetta 2020, p. 324). Una questione privata. Una positiva discendenza archivistica.
Tornare a San Miniato luglio ’44 (1954) – a settant’anni dalla sua prima proiezione pubblica e a ottant’anni dalla strage del Duomo di San Miniato a cui fa riferimento – è possibile grazie al soggetto, scritto con la consulenza di Zavattini, affrontato in occasione del progetto di ricerca per l’Edizione Nazionale delle Opere di Cesare Zavattini, progetto anche confluito in un volume dedicato ai Soggetti cinematografici mai realizzati (Zavattini 2023). Una collaborazione atipica da indagare, ma soprattutto una finestra su una traiettoria possibile nel cinema dei Taviani.
Nel 1954, Paolo, Vittorio e Valentino Orsini vengono interpellati dal comitato cittadino di San Miniato per cimentarsi in un corto documentario in memoria dell’eccidio nella Cattedrale avvenuto dieci anni prima per mano dei tedeschi. Il progetto ha fisiologiche complicazioni, ma tra queste la più nota è l’operazione censoria – come documentato in un dettagliato fascicolo sul caso – che ritiene i Taviani inadeguati in quanto «noti esponenti del comunismo locale». Il cortometraggio però, seppur con qualche rinuncia, viene completato e proiettato in anteprima alla Mostra Nazionale del Documentario di Pisa del 1954, evento che spinge Zavattini a dichiarare in un carteggio con Valentino Orsini che «una serata di documentari vale più di qualsiasi altra manifestazione di cinema».
È proprio in quel momento che Zavattini, sapendo dell’apparizione del suo nome troppo «folgorante e autoritario», mette in chiaro con i registi il suo ruolo nel film, ovvero quello di semplice consulente, chiedendo di diminuire la grandezza del suo nome nei titoli, pur concedendo un ritorno di visibilità che però non si rivela utile ad evitare una seconda censura con definitivo divieto di proiezione in quanto ritenuto «contrario all’ordine pubblico». La battaglia è persa, i registi cedono e il film non vede più la luce della distribuzione pubblica. Ma rileggere oggi il canovaccio – conservato nell’Archivio storico del Comune di San Miniato (PI) e nell’Archivio Cesare Zavattini della Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia – ci permette di affrontare alcune questioni, sequenza per sequenza.
Sono inquadrature aeree su San Miniato e didascalie in sovraimpressione, confronti tra immagini delle strade del paese e documenti conservati dal comune, autentico materiale audiovisivo montato con le voci delle testimonianze di un’inchiesta condotta anni prima, materiale fotografico e la voce di un assessore. Segue una seconda metà di cinema diretto di influenza zavattiniana, di pedinamento, inchiesta, di idea documentaria, come esposto:
Ha inizio così l’inchiesta diretta. La macchina si ridurrà al ruolo di reporter, si incontrerà con i famigliari delle vittime […] mentre la colonna sonora ne registrerà le dichiarazioni. Il cortometraggio si affiderà alla collaborazione diretta tra intervistatori e intervistati. Attraverso una serie di domande, gli intervistatori cercheranno di individuare, nelle linee essenziali, il significato che la tragica esperienza ha avuto per i superstiti […] la macchina scolpirà sinteticamente gli ambienti, il materiale plastico che abbia un pregnante valore di indicazione. Cercherà di cogliere della memoria dello scomparso il riflesso più intimo della casa, nella famiglia, nell’ambiente di lavoro. Sulla base della breve inchiesta da noi già condotta, indichiamo alcuni “incontri” che ci sembrano particolarmente significativi e che intenderemo riproporre così come sono avvenuti.
Vediamo già, in questo esordio, quella positiva discendenza archivistica, l’intricarsi della storia privata con quella collettiva, dell’esperienza del padre, Ermanno Taviani – coinvolto direttamente nell’unica commissione d’inchiesta italiana sui fatti dell’eccidio e presenza motivante, tra le altre, della censura al corto – così come dell’esperienza di un paese, della resistenza e dell’impegno politico in generale. Il passaggio della memoria archivio, non organizzata, in memoria funzionale, messa in fila, fatta vivere (Assmann 2002).
Quasi trent’anni dopo questa vicenda, nel 1982, l’eccidio di San Miniato torna nell’opera dei Taviani con il più noto La notte di San Lorenzo (1982). È un ritorno, ma non dell’identico. Un tentativo di rifare qualcosa che non aveva più visto una vera luce, e di rifarla da zero. Ripartire da una missione “di campanile” abbandonata agli esordi, risemantizzandola, astraendola geograficamente ed enfatizzandola narrativamente.
Se l’esordio è duro e diretto, geograficamente radicato e politicamente pianificato, La notte di San Lorenzo è slanciato e indiretto, frutto di una favola della buonanotte, dell’immaginabile. La continuità di matrice non corrisponde a quella pragmatica. Il modo documentale diventa finzionale (Odin, 2013), l’archivio diventa epica. La memoria storica è vivente in entrambi, il ricordo d’infanzia e il portato individuale si fa collettivo, ma la discendenza è differente. Se in San Miniato, luglio ‘44 è la discendenza paterna di un padre responsabile della commissione che sostiene un documentario d’inchiesta diretto al mondo esterno, ai fatti e ai documenti, La notte di San Lorenzo presuppone la genealogia materna di una voce narrante femminile intenta a raccontare una favola ai figli dal punto di vista interiore di una bambina che, sostenuta da un modo finzionale, lieve e infantile, reinventa e risemantizza favolisticamente la resistenza.
Emerge così quello che è il cinema dei Taviani. Un cinema che si è sempre confrontato «con la storia e la memoria» attingendo a piene mani «alla memoria personale» – come nell’esordio – ma che se ne serve come base di lancio verso gli orizzonti della «storia come epopea e utopia» (Brunetta 2020, p. 324), «l’estremo tentativo, uno degli ultimi, di individuare nel passato nazionale, malgrado la fragilità di una memoria sempre più “non riconciliata”, le condizioni di un racconto mitico» (Uva in De Gaetano 2016, p. 202).
A inizio anni duemila, sui fatti di San Miniato, la lettura canonica si è incrinata e oggi si esclude totalmente la responsabilità dei tedeschi, a favore dell’ipotesi dell’esplosione di una mina vagante alleata. Ma bisogna dire che in questa sede poco importa, perché qui non contano i fatti, ma gli sguardi, i racconti, l’epica: la storia che si fa memoria, questione privata, utopia.
Riferimenti bibliografici
A. Assmann, Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, il Mulino, Bologna 2002.
G. P. Brunetta, L’Italia sullo schermo: come il cinema ha raccontato l’identità nazionale, Carocci, Roma 2020.
R. Odin, Gli spazi di comunicazione. Introduzione alla semio-pragmatica, La scuola, Bologna 2013.
C. Uva, Storia, in R. De Gaetano (a cura di), Lessico del cinema italiano vol. III, Mimesis, Milano 2016.
C. Zavattini, Soggetti cinematografici mai realizzati, a cura di N. Dusi, M. Salvador, Marsilio, Venezia 2023.