È difficile spiegare che cosa significhi “biopolitica”, una parola sempre più usata, e non solo dai filosofi, e tantomeno dai soli studiosi di Foucault. Qui ne proponiamo una spiegazione molto parziale, che ci è utile per entrare in un libro per molti aspetti straordinario (a partire dal titolo), 6/5 (Nero edizioni, Roma 2018), scritto da Alexandre Laumonier (da seguire anche il suo blog Sniper in Mahwah), un antropologo e scrittore che ha cominciato ad esplorare in dettaglio il mondo letteralmente pazzesco del cosiddetto High-frequency trading. Partiamo proprio dal titolo, poi torniamo alla biopolitica: 6 sono i millisecondi che impiega un segnale ad arrivare dalla borsa di Chicago a quella di New York attraverso una fibra ottica; 5 (al momento scesi fino a 3,982) i millisecondi necessari per percorrere la stessa distanza con una tecnologia diversa (microonde; ammesso che abbiamo capito bene). L’idea di base è che le operazioni in borsa – come quella di Roma che si vede in un film di Antonioni, L’eclisse (1962) – che un tempo erano basate sull’attività di esseri umani che urlando come forsennati vendevano e compravano titoli e azioni, ora sono completamente automatizzate, al punto che dentro Wall Street, il tempio del capitalismo mondiale, di fatto non succede più nulla:
Se le televisioni diffondono ancora immagini di uomini che si agitano di fronte a decine di monitor, questi sono per la maggior parte semplici spettatori: non fanno granché, se non osservare gli algoritmi al lavoro. È per questo che gli attivisti di Occupy Wall Street mancarono completamente il bersaglio scegliendo Wall Street come teatro delle proprie manifestazioni: nessuno gli aveva detto che i mercati non si trovano più a Manhattan, ma a Mahwah. Oggi "Wall Street" non designa altro che giganteschi hangar localizzati in New Jersey (Laumonier 2018, p. 64).
In che senso questa totale smaterializzazione della finanza ha a che fare con la biopolitica? Nel senso che oggigiorno la politica – che non è che il braccio disarmato dell’economia – non ha altro obiettivo che mettere la vita (umana e non) al proprio servizio. La favola che gli economisti ci raccontano è che l’economia sarebbe quel campo della vita umana incentrato sull’uso di risorse scarse al fine di soddisfare al meglio i bisogni individuali; questa è una favola, perché la realtà dei mercati finanziari, al contrario, mostra che l’economia è al servizio dell’economia (Marx avrebbe detto che il ciclo economico è DMD, dal denaro alla merce per arrivare ad altro denaro, e così via). In effetti, quando lo scambio finanziario è gestito da un algoritmo, che si scontra con altri algoritmi, in che senso questa battaglia servirebbe a migliorare le condizioni di vita degli esseri umani?
Facciamo un passo indietro e torniamo al libro di Laumonier. Partiamo, ad esempio, dall’ultima sconvolgente crisi finanziaria, quella del 2008, una crisi che in Italia non è stata ancora superata (e se continua così sarà difficile che possa esserlo anche nel futuro): «malgrado i pregiudizi», scrive Laumonier, «non è stata l’avidità a gettare il mondo intero in una crisi finanziaria senza precedenti: è stata l’intelligenza» (ivi, pp. 18-19). L’intelligenza algoritmica di migliaia di computer in guerra uno contro l’altro, ognuno alla ricerca del modo migliore per comprare al minimo prezzo e vendere al massimo prezzo possibile. Dietro questi algoritmi c’è moltissima scienza e intelligenza, ma una scienza e una intelligenza che ormai procedono per conto suo.
La solita sconfortante obiezione che c’è un essere umano dietro ogni algoritmo si rivela per quello che è, una banalità che non coglie il segno. Intanto sempre più gli algoritmi sono capaci di apprendimento autonomo, cioè sono capaci di imparare a come migliorarsi: questo significa che non hanno bisogno di un essere umano per programmarsi. Ma soprattutto l’umano che scrive il programma dell’algoritmo di fatto già pensa come un algoritmo: in pratica è egli stesso un algoritmo non basato sul silicio bensì sul carbonio. Se ora prendiamo sul serio questa osservazione di Laumonier, è evidente che le critiche moralistiche contro l’economia finanziaria mancano completamente il segno: non è che il banchiere è cattivo (spesso invece è una bravissima persona, che ama l’arte e finanzia generosamente borse di studio per i poveri e meritevoli del terzo mondo), è che l’algoritmo non sa che farsene del buono e del cattivo: l’algoritmo funziona, e funziona in base alle “sue” istruzioni. Istruzioni che non hanno altro scopo – come abbiamo appena detto – che comprare a poco e vendere al massimo. Tutto qui.
La modernità biopolitica, cioè la finanziarizzazione dell’economia, non è il risultato del degrado morale del capitalismo (non andrebbe mai dimenticato che il capitalismo fa soldi sia vendendo carri armati che capolavori di Cézanne, oppure vaccini contro la malaria che devasta buona parte dell’Africa centrale: DMD, non dimentichiamo questa formula semplice ma terribilmente efficace): è il risultato della progressiva espulsione degli esseri umani dall’economia e quindi dalla politica. Laumonier ricostruisce con molti dettagli come si è arrivati alla situazione presente. Ad esempio già nel 1977 (esisteva ancora, sia pure ancora per poco, l’Unione Sovietica e il cosiddetto “socialismo reale”), la statunitense Commodity Features Trading Commission, aveva compreso che per far sviluppare l’industria dei prodotti derivati (come appunto i features), prima negli USA e poi nel resto del mondo che allora si autodefiniva “libero” (oggi non c’è più nessuna nazione che non si riconosca di fatto nel mondo capitalistico), bisognava prevedere questi interventi: era arrivato il tempo di «saltare i filtri umani; liberalizzare i mercati e deregolamentare la finanza; cambiare le regole che risalivano a due secoli prima; investire centinaia di milioni di milioni di dollari, miliardi di dollari; concepire un algoritmo in grado di gestire la priorità temporale; sottomettere gli umani alla temporalità dei computer». In questo modo sarebbe finalmente «cominciata una nuova era: quella della rivolta delle macchine» (ivi, p. 30).
La questione temporale è quella decisiva. Una transazione umana richiede il tempo di formulare un’intenzione di acquisto o vendita, comunicare questa intenzione, a cui si aggiunge il tempo necessario per registrare questa richiesta; il tempo, infine, per prendere atto del cambio della quotazione dell’azione trattata. Qualche decina di secondi, anche per quei particolari esseri umani, gli agenti di borsa, che si allenavano per anni per essere in grado di partecipare a quella particolare “forma di vita” che è la vita della borsa. Con l’arrivo degli algoritmi tutto quel tempo diventa, di colpo, superfluo. In quei, poniamo, trenta secondi si possono effettuare milioni (sì, avete capito bene), milioni di contrattazioni diverse. Questa è l’era della definitiva finanziarizzazione dell’economia:
La prima fase della rivolta delle macchine era cominciata alla fine del XIX secolo, quando la comparsa del segnale elettrico permise alle informazioni di circolare da un angolo all’altro del paese [gli USA] attraverso il telegrafo […]. Alla fine del XX secolo, fu possibile collegare tra loro i computer per mezzo di cavi che rendevano possibile la diffusione e di informazioni all’istante, di microchip sempre più veloci e di algoritmi superpotenti. La rete delle macchine sarebbe diventata mondiale. E quei pochi secondi […] non sarebbero stati più che decimi, e poi centesimi di secondi. Poi millesimi di secondi. Poi microsecondi. E infine nanosecondi (ivi, pp. 38-39).
Quando uno scambio avviene su questa scala, non è solo che si tagliano fuori gli esseri umani, i cui tempi di reazione sono “giurassicamente” più lenti. Si sta letteralmente costruendo una nuova “forma di vita”, completamente artificiale, e del tutto preclusa agli attoniti esemplari della specie Homo sapiens: «Un ecosistema di estrema complessità tecnologica, con algoritmi che lottano tra loro per acquistare o vendere titoli in qualche microsecondo e ottenere margini inferiori al centesimo. I mercati finanziari sono entrati nell’era del trading ad alta frequenza» (ivi, p. 63). Tutto questo potrebbe sembrare una questione che riguarda solo la finanza, e qualche broker spericolato. In realtà quelle azioni scambiate a ritmi letteralmente inumani, vogliono dire industrie, assicurazioni, ospedali, università: cioè le vite degli esseri umani. Vite che sono in mano, in senso non metaforico, di algoritmi che “pensano” sulla scala di milionesimi di secondo.
La spaventosa accelerazione del mondo economico fa piazza pulita, e per sempre, di antichi valori come la stabilità, la lunga durata, la pazienza, la cautela: «Dopo la seconda guerra mondiale un titolo apparteneva al suo proprietario per quattro anni. […] Nel 2013, un titolo cambiava di proprietà in media ogni 25 secondi, ma poteva anche passare di mano in qualche millesimo [di secondo]» (ivi, p. 65). Se ciò che rende possibile l’esistenza materiale, il denaro, ha un battito vitale che si misura in milionesimi di secondo, è evidente che tutto il resto – e questo vuol dire amore, affetti, relazioni, lavoro e così via – tenderà ad uniformarsi a questo ritmo spaventoso. Con buona pace degli ingenui che parlano di tornare all’economia “materiale” e ai ritmi di vita “naturali”.
L’economia moderna è finanziaria: «Nel 2013 a un computer sarebbero bastati soltanto pochi nanosecondi per calcolare le migliaia di logaritmi che gli avrebbero permesso (in qualche microsecondo) di prendere la decisione di acquistare o vendere un titolo su una delle tredici piattaforme [elettroniche di scambio] americane, dove un microchip ottimizzato per il trading ad alta frequenza avrebbe eseguito l’ordine in 740 nanosecondi. L’operazione avrebbe richiesto dieci volte meno tempo di quello necessario a un essere umano per battere le palpebre» (ivi, p. 81). L’immagine è suggestiva, e contiene già la risposta a chi chiede (con un perfetto riflesso biopolitico) più controlli su queste transazioni: controlli, appunto, che si svolgono alla velocità di un battito di ciglia, mentre il fenomeno da controllare è dieci volte più veloce. Laumonier riporta le parole di uno di questi presunti controllori, che di fatto non controlla affatto quello che succede, controlla che non ci sia nessun problema tecnico che impedisca alle macchine di lavorare in modo efficiente:
Immaginate che le transazioni di borsa siano delle onde. La nostra compagnia [quella per cui lavora l’informatico (non un economista) che “controlla” il funzionamento delle macchine] è un surfista che cerca un’onda, la cavalca per un istante, e poi se ne va prima che s’infranga. I nostri computer acquistano e vendono quotidianamente decine di migliaia di azioni, e le conservano per pochissimo tempo, spesso meno di un minuto. Nessun essere umano, da solo o in gruppo, è in grado di seguire il volume di transazioni che attualmente realizzano i computer nelle Borse di tutto il mondo. Non è certo un compito che abbiamo sottratto agli umani per affidarlo ai computer – è qualcosa di totalmente nuovo (ivi, p. 143).
Chiudiamo queste note con un ultimo numero, quello delle transazioni dei primissimi istanti delle contrattazioni della seduta della Borsa di New York del 18 settembre 2013: «Quel giorno, le piattaforme americane si scambiarono circa un miliardo di dollari fra le 14h 00mn e le 14h 00mn 02s di cui 400 milioni nei primi 100 millisecondi» (ivi, p. 156). La rivolta delle macchine. E anche del tempo.
Riferimenti bibliografici
A. Laumonier, 6/5, Nero edizioni, Roma 2018.