Non è affatto facile riuscire a rinnovare scenari, trame e forme della zombie fiction senza scivolare nel già visto, nel prevedibile o in confronti inevitabili con i classici del genere. Lo ha dimostrato bene Jim Jarmusch con I morti non muoiono (2019), dove una classica apocalisse zombie vira nel finale verso percorsi apertamente metacinematografici: i due poliziotti si ritrovano infatti tra le mani il copione del film stesso, come a suggerire che tutto è già stato scritto e che non resta che muoversi sulla superficie della citazione, spesso in chiave ironica.
Forse è proprio in questa difficoltà a rinnovarsi o riconfigurarsi che risiede il significato profondo dello zombie: il suo essere un mostro della ripetizione. Una ripetizione che si esprime attraverso immagini dell’orrore che non smettono di ricordarci l’oscenità materiale e sociale dell’umano.
Esattamente come aveva fatto George Romero nel 1968 con il leggendario La notte dei morti viventi, inaugurando un nuovo paradigma del morto vivente rispetto alle atmosfere esotico-esoteriche dell’horror classico degli anni trenta e quaranta, anche Danny Boyle con 28 giorni dopo (2002), coadiuvato dalla sceneggiatura di Alex Garland, ha operato una profonda riconfigurazione semantico-allegorica dello zombie. Innanzitutto eliminando l’ingombro cristologico della resurrezione: i suoi zombie non muoiono, non sono più dei “morti viventi”, ma corpi infetti e furiosi (a causa di un virus mutato della rabbia), mossi dall’unico impulso di contagiare gli altri. La “classica” capacità anfibia del morto vivente di attraversare e unificare i regimi della vita e della morte, a partire da Boyle, lascia spazio all’esibizione apocalittica del contagio inarrestabile (Lino 2021).
Lo zombie furioso inaugurato da Boyle diventa così il dispositivo corporeo delle minacce invisibili di una microbiologia micidiale (Simpson 2014), in cui si riflette la diffidenza verso l’industrializzazione della scienza medica, subito sedimentata in altre narrazioni come World War Z (2013, Foster), La ragazza che sapeva troppo (2016, McCarthy), e più recentemente nella serie The Last of Us (2023 – in corso, ideata da Craig Mazin, Neil Druckmann); solo per citare alcuni titoli.
Riprendendo il filo della narrazione di un mondo ormai sceso a ineludibili compromessi con l’infezione irreversibile, Boyle e Garland proiettano la storia in un futuro post-apocalittico creando con 28 anni dopo un preciso storyworld incentrato sulla semantica della quarantena. Nelle brevi didascalie inziali, il film chiarisce che il virus è stato debellato in Europa – il cui micidiale ingresso veniva suggerito nel finale del sequel 28 settimane dopo (2007, Fresnadillo) – ma sopravvive unicamente nel Regno Unito, ormai sotto una strettisima quarantena; evocando così in maniera diretta l’isolazionismo britannico post-Brexit.
Il filo conduttore che tiene unito questo articolato scenario narrativo è l’infanzia negata, tema annunciato già nel prologo. Non si tratta di una novità (si pensi al fallimentare spin-off The Walking Dead: World Beyond, 2020-21), ma Boyle e Garland ne sviluppano con efficacia il potenziale simbolico. 28 anni dopo inizia con la rappresentazione di un trauma profondo: un attacco blasfemo in cui il sacro legato all’infanzia collassa. L’innocenza infantile viene immediatamente sporcata dagli schizzi di sangue che dopo l’arrivo degli infetti investono lo schermo di una televisione dove vengono trasmessi i Teletubbies e attorno al quale erano stati raggruppati una manciata di bambini. L’unico sopravvissuto, Jimmy, trova riparo nella chiesa dove il padre, un reverendo della piccola comunità delle Highlands scozzesi, in preda a una controvesa estasi mistica si lascia assalire dagli infetti, interpretando il loro arrivo come l’annuncio del Giudizio Universale.
Ventotto anni dopo, nella comunità di sopravvissuti sull’isola di Lindisfarne, il mondo sembra tornato a una forma di collettività rudimentale, quasi medievale: bastioni, archi, frecce. Un altro ragazzo, Spike, intraprende un rito di passaggio accompagnato dal padre, nella terraferma infestata. La loro storia, una sorta di on the road oscuro, rovescia in negativo il legame padre-figlio centrale nel romanzo La strada (2006) di Cormac McCarthy, modello imprescindibile per tutta la narrativa post-apocalittica recente.
A partire da questo punto, il film si dispiega lungo schemi votati al fallimento: la rottura del rapporto tra padre e figlio, il viaggio senza successo di Spike nella terra ferma per curare la madre afflitta da un cancro al cervello, diventano i prestesti per una duplice epslorazione: quella di un lutto universale che si materializza nella Stonehenge di teschi e ossa edificata dal Dottor Kelson, un monumento al “memento mori” universale che unisce la morte tanto post e pre-apocalittica; quella dell’evoluzione degli infetti, la cui rappresentazone tribalistica rimanda a una sorta di primitivismo in cui si stratificano numerosi immaginari cinematografici, in bilico tra regressione dell’umano e palingenesi post-umana.
Il film infatti ribadisce la centralità delle istanze post-apocalittiche nel cinema contemporaneo, in cui la coesistenza forzata tra l’umano e l’infetto produce prassi di sopravvivenza organizzate in senso comunitario e rette narrativamente sullo schema del family drama, inteso come ecosistema affettivo continuamente a rischio, se non strutturalmente in crisi. Come ha scritto Peter Y. Paik (2010), il cinema post-apocalittico offre «una rappresentazione realistica di un mondo trasformato che non omette gli orrori su cui si fonda». In questo contesto, 28 anni dopo raccoglie e rielabora le tendenze più vivide della fiction post-apocalittica contemporanea: un’umanità che riscopre le proprie radici comunitarie (Berger 1999); l’infanzia negata e ricostruita attraverso racconti di formazione dove sacro e innocenza vengono costantemente perturbati (Olson 2015; 2024); la persistenza delle dinamiche del lutto; una morfologia degli infetti stratificata (lenti e larvali, tradizionali, “alfa”); l’idea di modelli alternativi di umanità, oscenamente speculari a quella tradizionale, come nella procreazione degli infetti/zombie, già centrale in L’alba dei morti viventi (2004) e Army of the Dead (2021) di Zack Snyder.
Queste istanze che attraversano negli ultimi anni diversi film e serie tv, trovano qui un’efficace combinazione tematica arricchita da una ricca contaminazioni di codici e registri, alternando immagini d’archivio filmiche e belliche amalgamate a quelle narrative in maniera originale, spregiudicata e travolgente grazie anche all’uso di musiche marziali, elettroniche e post-rock (gli spettatori più attenti aprezzeranno, nel finale, il riuso del brano East Hastings dei Godspeed You! Black Emperor che aveva memorabilmente scandito il viaggio da “ultimo uomo” di Jim in una Londra desolata nel film del 2002). In questa architettura postmoderna, diversi segmenti narrativi si sovrappongono in un continuo confronto tra cancellazione della memoria del mondo pre-apocalittico e precarietà della sopravvivenza del presente – instaurando anche una efficace dialettica tra cinema apocalittico del passato e rappresentazioni post-apocalittiche del presente.
Combinando con lucidità gli stimoli provenienti dalla fascinazione post-apocalittica del cinema e della serialità contemporanei, e intensificando un eclettismo stilistico travolgente ma mai appiattito su forme narrative o figurative dominanti – anzi, aprendosi a numerose e imprevedibili deviazioni espressive (il finale, ad esempio, sembra strizzare l’occhio, perché no, al filone post-apocalittico italiano degli anni ottanta; cfr. Sansiveri 2015) – 28 anni dopo costruisce un mondo in cui alla nuova narrazione dell’infanzia, disinnescata da ogni residuo di sacralità tradizionale (la croce cristiana che apre il film ricompare nel finale, significativamente rovesciata), corrispondono inedite possibilità di immaginare un’umanità finalmente disancorata dallo spettro del passato, e in cui, in filigrana diviene possibile intravedere anche nuove possibilità narrative ed espressive del cinema post-apocalittico tout court.
Riferimenti bibliografici
J. Berger, After the End: Representations of Post-Apocalypse, University of Minnesota Press, Minneapolis 1999.
M. Lino, Post-Apocalypse Now. Cinema e serialità zombie come pre-mediazione del contagio, in “Between”, VIII.22, 2021, pp. 113-138.
D. Olson, a cura di, Screening Children in Post-Apocalypse Film and Television, Lexington, Lanham-Boulder 2024.
Id., a cura di, The Child in Post-Apocalyptic Cinema, Lexington, Lanham-Boulder 2015.
P.Y. Paik, From Utopia to Apocalypse: Science Fiction and the Politics of Catastrophe, University of Minnesota Press, Minneapolis 2010.
M. Sansiveri, Apocalypse Italia. Il cinema post-atomico italiano, Ilmiolibro, Roma 2015.
P.L. Simpson, The Zombie Apocalypse Is Upon Us! Homeland Insecurity, in D. Keetley, a cura di, “We’re All Infected”: Essays on AMC’s The Walking Dead and the Fate of the Human, McFarland, Jefferson 2014.