Mettere in discussione la credibilità e la veridicità delle immagini amatoriali girate durante il conflitto è ormai diventata pratica comune nei discorsi propagandistici da ambo i fronti coinvolti. Questo aspetto risulta evidente per la guerra in Ucraina dove la Russia ha accusato più volte e apertamente il nemico di diffondere fake news e di ricostruire e fabbricare ad arte, in favore di camera, episodi con cui accusare illegittimamente il governo di Mosca. Nello specifico, Putin sostiene che le immagini dei civili morti e feriti a seguito del bombardamento all’ospedale ostetrico di Mariupol avvenuto a marzo del 2022 siano false. Secondo quanto dichiarato dalla Russia, l’edificio era già passato sotto il controllo delle forze ucraine che avrebbero fatto evacuare pazienti e personale medico. Conseguentemente, i soggetti che compaiono nelle immagini trasmesse da tutti i network occidentali sarebbero degli attori chiamati ad interpretare il ruolo delle vittime. 20 Days in Mariupol (2023), diretto da Mstyslav Chernov, giornalista e filmmaker, vincitore del premio Pulitzer, racconta l’assedio russo alla città portuale ucraina.

Il documentario si pone l’obiettivo, potremmo dire, di autenticare le immagini trasmesse dai network occidentali, screditate dal governo di Mosca, attraverso l’autorità della presenza che dovrebbe rendere il racconto meno filtrato e mediato. Chernov e un gruppo di altri giornalisti, giunti in città per filmare il conflitto, rimangono bloccati a Mariupol per venti giorni. Il regista si interroga sul suo ruolo e sull’importanza di documentare il conflitto, “abbiamo già visto così tanti morti, come altri morti potrebbero cambiare le cose?”. Tuttavia, sono gli stessi cittadini, che raccontano la propria quotidianità distrutta dal conflitto, a chiedere a gran voce a Chernov di filmare quanto sta accadendo in modo che tutto il mondo sia testimone. Il regista non indugia nel mostrare immagini estremamente crude e drammatiche. Nell’ospedale in cui si rifugiano, quello che verrà poi bombardato, è un dottore a invitare il regista ad entrare in sala operatoria per filmare il corpo senza vita di una bambina di quattro anni, oppure riprendere la scena straziante di un padre che piange sul cadavere del figlio adolescente. “È un bene che ci sia qui la stampa, continuate a filmare, mostrate come Putin uccide i civili”, ribadisce il medico. Un altro dottore, nell’ospedale pediatrico di Mariupol, l’unico rimasto attivo dopo il bombardamento di quello ostetrico, conduce il regista negli scantinati facendogli vedere dove vengono tenuti i corpi di chi non riescono a salvare, dal momento che non è possibile uscire dall’edificio per seppellirli. Il punto di osservazione della guerra è l’ospedale, un luogo che dovrebbe essere sicuro, zona franca per il rifugio e la protezione dei civili che invece viene vigliaccamente attaccato dall’esercito russo. Sentiamo gli spari, la guerra è nelle strade ma il nostro punto di vista è sempre dall’ospedale, dietro il vetro rotto di una finestra che mostra il conflitto in lontananza.

Le immagini colte dalla videocamera di Chernov vengono alternate con immagini effettuate dal drone, che allargano la prospettiva mostrando la devastazione a cui sta andando incontro la città. Nel corso del film vediamo come le immagini realizzate dal regista, all’interno dell’ospedale, davanti alle fosse comuni, nelle strade, vengano rimediate dai principali network internazionali come CBS News, France 24, Deutsche Welle e MSNBC. In questo modo lo spettatore assiste alle fonti primarie, andando oltre ai brevi estratti che vengono trasmessi dai canali televisivi o postati sui social media, per affrontare un racconto organico e cronologico – delle didascalie scandiscono i giorni di assedio – in cui il certificato di presenza del regista autentica le immagini, una contro-prova rispetto alla disinformazione messa in atto dalla Russia. Nel documentario sono chiari i riferimenti alla campagna propagandistica attuata da Mosca per screditare le immagini riprese dal fronte ucraino. Vengono mostrati filmati trasmessi dai network russi in cui Putin invita a diffidare dal racconto dei nemici, facendo esplicito riferimento alle immagini dell’ospedale di Mariupol che vediamo nel documentario. Il regista stesso riporta le parole di un suo collega giornalista, il quale avverte i compagni, “se i russi vi prendono, vi obbligheranno a dire che tutto quello che avete pubblicato sono bugie”.

Il film cerca dunque di cogliere e fornire una prova visibile, visible evidence, insindacabile, di violenze e abusi, così come proporre una riflessione sull’instabilità interpretativa a cui può andare incontro nel panorama mediale contemporaneo. La riflessione coinvolge sia l’efficacia dell’immagine sia quanto questa possa avere una dimensione affettiva. L’effettività attesta il fatto che quello che viene filmato, un fatto accaduto, può essere usato anche in sede legale come strumento per denunciare le violenze e i soprusi subiti. La componente affettiva risiede invece nella ricerca di un’immagine che possa stimolare pratiche di partecipazione e resistenza collettiva sul piano politico, umanitario e sociale. L’immaginario mediale che si è andato a formare con la guerra in Ucraina, nonostante per quanto riguarda tematiche, modalità e forme di rappresentazione possa essere associabile alla guerra civile siriana, ad esempio, riaccendendo un senso d’identità europeo, inevitabilmente dovuto alla vicinanza del teatro di guerra, fin da subito ha generato una risposta diversa, portando ad un intervento umanitario e militare non paragonabile agli sforzi impiegati dall’Occidente per proteggete la popolazione contro i regimi in Medio Oriente.

20 Days in Mariupol. Regia: Mstyslav Chernov; fotografia: Mstyslav Chernov, Evgeniy Maloletka; montaggio: Michelle Mizner; produzione: Associated Press PBS Frontline; distribuzione: PBS Distribution; origine: Ucraina; durata: 94′; anno: 2023.

Tags     documentario, Guerra, Ucraina
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