Nel saggio Lituraterra, collocato da Jacques-Alain Miller in apertura della raccolta Altri Scritti, lo psicoanalista Jacques Lacan torna con la memoria a un’esperienza quotidiana, da lui vissuta qualche tempo prima su un volo di ritorno dal Giappone. Mentre l’aereo attraversa le sconfinate regioni siberiane, l’attenzione di Lacan è catturata dall’insolito paesaggio che si dischiude sotto i suoi occhi: si tratta di una landa deserta e arida, dove le uniche tracce osservabili a quell’altezza sono i ruscellamenti sul terreno prodotti dalla pioggia. Le gocce d’acqua, provenienti dalla rottura delle nubi, lasciano incise impronte particolari, il cui solco sembrerebbe rimandare alla singolarità del gesto calligrafico. Queste tracce, che la pioggia disegna sulla terra come su un grande foglio di carta, appaiono dunque molto simili al tratto degli ideogrammi orientali: il paesaggio, visto dal finestrino dell’aereo, diviene per Lacan un’immagine suggestiva della scrittura, un modo per ripensare il ruolo della lettera oltre il primato attribuito al significante negli anni precedenti.
Nel testo preso in esame, la lettera è concepita come pura litura, vale a dire come «cancellatura di ogni traccia anteriore» (Lacan 2013, p. 15). In una zona di limite tra sapere e godimento, la scrittura non si configura come una mera capacità di ricalcare i significanti, ma è appunto rottura, cancellatura, erosione dei significati. Attraverso il riferimento al litorale, inteso nella sua comune accezione di territorio intermedio tra terra e acqua, Lacan considera la lettera come il tratto singolare in grado di produrre una costante erosione del simbolico.
All’interno del suo ultimo libro, intitolato Zanzotto/Lacan. L’impossibile e il dire, Alberto Russo Previtali si richiama con precisione alle immagini di Lituraterra qui brevemente tratteggiate, facendone emergere i punti di contatto con le poesie di Andrea Zanzotto. Per comprendere in profondità la rilevanza di questo passaggio, è utile volgere lo sguardo allo sfondo teorico entro cui si muove la riflessione dell’autore. Il volume di Previtali attraversa lo straordinario itinerario poetico compiuto da Zanzotto, analizzando l’influenza nelle sue opere di alcuni concetti chiave della psicoanalisi lacaniana. La barra che nel titolo divide i due nomi non è casuale; essa, spiega l’autore, ha lo scopo di mettere in luce «le implicazioni profonde, reciproche e reversibili che si tessono nell’alleanza che Zanzotto stringe con Lacan: dalla poesia alla psicoanalisi e dalla psicoanalisi alla poesia» (Russo Previtali 2019, p. 11). Si tratta di un legame complesso, cui è possibile accedere mediante molteplici e differenti percorsi di lettura. Ciò che distingue in maniera peculiare lo studio di Zanzotto da altri tentativi di avvicinamento all’intricato orizzonte lacaniano, ha a che fare con la prospettiva entro cui esso stesso si sviluppa: Zanzotto è essenzialmente un poeta (ivi, p. 13). Egli entra dunque in contatto con la teoria psicoanalitica di Lacan compiendo un percorso che non è meramente filosofico o clinico.
Il saggio di Previtali esplora le diverse fasi di una lunga e prolifica attività poetica, all’interno della quale si susseguono i richiami alle differenti stagioni della ricerca lacaniana. Se nella prima fase della produzione di Zanzotto appare più evidente l’influsso dello strutturalismo di Ferdinand de Saussure, caratterizzato però dalla preminenza del significante sul significato, negli anni successivi il poeta di Pieve di Soligo si rivolge con maggiore insistenza a ciò che sembra inevitabilmente sfuggire al registro del simbolico, alla sua messa in ordine. Quest’ultima fase è contraddistinta dall’emergenza del reale, inteso come oscura dimensione del “fuori” che si pone al di là dei confini rappresentati dalla significazione e dal senso, costituendo una vera e propria «impasse della formalizzazione» (Lacan 2011, p. 87). Proprio al registro del reale il testo di Previtali dedica le sue più feconde considerazioni, lasciando emergere così i nodi concettuali che caratterizzano il legame tra poesia e psicoanalisi.
In particolare, nel passaggio richiamato più in alto, l’autore affronta la questione dell’incontro con il limite del linguaggio in alcuni componimenti della raccolta Fosfeni (seconda parte della trilogia comprendente Il Galateo in Bosco e Idioma), pubblicata da Zanzotto nel 1983, appena due anni dopo la morte di Lacan. Come nell’apologo di Lituraterra la lettera è analizzata nella sua singolarità, configurandosi alla stregua di un solco sul terreno, così anche nei versi di Zanzotto essa si presenta principalmente come traccia scritturale, «graffio del segno calligrafico elementare sulla pagina bianca» (Russo Previtali 2019, p. 133). In questa raccolta il poeta veneto ricorre spesso all’utilizzo di piccole immagini olografiche: scarabocchi privi di senso, trattini elementari, indecifrabili sovrimpressioni olofrastiche fanno la loro improvvisa comparsa all’interno delle poesie. Qui la lettera rivela la sua materialità e ricorda quella traccia scavata dalla pioggia nella sconfinata pianura siberiana, osservata da Lacan durante il viaggio di ritorno dal Giappone; come sottolinea puntualmente Previtali, la lettera mostra «l’origine singolare, contingente della scrittura» (ivi, p. 135).
Facciamo ora un piccolo passo in avanti e da Fosfeni spostiamo la nostra attenzione su altre due raccolte: Filò e Idioma, pubblicate da Zanzotto rispettivamente nel 1976 e nel 1986. In questi componimenti il poeta si confronta direttamente con la questione del dialetto, concepito come un vero e proprio laboratorio di sperimentazione linguistica. In particolare all’interno di Filò, il dialetto trevigiano è espressione del vecio parlar che risuona nelle strade di Pieve di Soligo; è la «voce dei secoli, quale corre sulle bocche del paese, sorta di grembo collettivo anteriore alla storia» (Agosti 2015, p. 64). Nella tradizione dialettale Zanzotto coglie l’eco di una lingua originaria, anteriore alla simbolizzazione e riconducibile a quell’universo pulsionale che nulla ha a che fare con le strutture lessicali e morfosintattiche proprie della lingua ufficiale.
Questo modo di intendere il dialetto richiama, per certi aspetti, il concetto lacaniano di lalingua, dove l’articolo determinativo scritto attaccato al sostantivo ricorda le lallazioni compiute dai bambini quando ancora non hanno imparato a parlare correttamente. All’interno del Libro XX del Seminario, Lacan sostiene che lalingua «serve a tutt’altre cose che alla comunicazione» (Lacan 2011, p. 132). Si tratta di una dimensione inconscia, pulsionale della lingua, all’interno della quale la parola non è utilizzata nella sua funzione strumentale, ma è considerata essenzialmente come fenomeno sensibile, come materialità non riducibile alla catena dei significanti. Nei celebri versi di Filò Zanzotto afferma che la poesia non si trova «in nessuna lingua / in nessun luogo» (Zanzotto 2011, p. 499), evidenziando la sua indeterminatezza, intesa come impossibilità di coincidere con la struttura grammaticale della lingua ufficiale. Il dialetto è dunque proprio questa esperienza originaria, “sorgiva” della lingua, che sfugge al registro del simbolico e alle mediazioni, divenendo così espressione del «tentativo di aprirsi al non-sapere cui è chiamata la poesia» (Russo Previtali 2019, p. 120).
Vale la pena rivolgere uno sguardo anche alla raccolta di pseudo-haiku composti da Zanzotto in inglese tra la primavera e l’estate del 1984, richiamati da Previtali nell’ultima parte del volume. Nell’universo giapponese l’haiku è caratterizzato da una certa semplicità: il termine si riferisce a un breve componimento, costituito da appena tre versi, le cui tematiche ruotano intorno a esperienze tratte dall’incontro quotidiano con il mondo naturale. Tuttavia, pur essendo di semplice lettura, l’haiku ha solo in apparenza il senso di un messaggio: è la tradizione occidentale, infatti, ad attribuire un significato simbolico al componimento. L’haiku, al contrario, «trova il suo idion poetico nella contingenza, nell’essenzialità del gesto come tentativo di un’uscita dal senso, verso una coincidenza del segno con se stesso» (ivi, p. 143). Ancora una volta la scrittura rivela il suo carattere materiale e non rappresentativo: anche nella composizione degli haiku Zanzotto sembra entrare in contatto con il reale della poesia.
Riferimenti bibliografici
S. Agosti, Una lunga complicità. Scritti su Andrea Zanzotto, Il Saggiatore, Milano, 2015.
J. Lacan, Il Seminario. Libro XX. Ancora (1972-1973), Einaudi, Torino, 2011.
J. Lacan, Lituraterra, in Altri scritti, Einaudi, Torino, 2013.
A. Zanzotto, Tutte le poesie, a cura di S. Dal Bianco, Mondadori, Milano 2011.
Russo Previtali, Zanzotto/Lacan. L’impossibile e il dire, Mimesis, Milano 2019.