Perché Heidegger? Quale ancora l’attualità di un filosofo che, soprattutto in seguito alla pubblicazione dei “Quaderni neri” – i quali riportano in auge il problema della compromissione del suo pensiero, e non solo della sua attività, con il corso nefasto della storia del XX secolo – ha suscitato una crescente diffidenza negli esegeti contemporanei, viziando qualche volta i risultati delle analisi con il riflesso abbagliante di un ingombrante pregiudizio? Non che tale diffidenza fosse senza ragioni; in più la filosofia, nel suo senso più peculiare – Nietzsche lo ha ribadito con gran forza – è proprio quel sapere atto a mettere in questione anche i più riconosciuti tra gli idoli. Tuttavia è innegabile che il pensiero del filosofo tedesco sia tra i più influenti, se non il più influente in assoluto, degli ultimi sessant’anni, avendo tra l’altro dato il là, attraverso la riflessione intorno alla differenza ontologica – e anche quando questa cosa non sia esplicitamente riconosciuta (vedi Gilles Deleuze) – a quella démarche che oppone il concetto di differenza a quello di dialettica, e che, nella Francia del secondo Novecento, ha configurato una linea di pensiero tra le più originali e a sua volta influenti.
Questo a testimonianza del fatto che si può riconoscere l’apporto di Heidegger anche in un polo del pensiero che indaga, per esempio riguardo al problema del rapporto tra umanità e tecnica, possibilità ermeneutiche di segno non risolutamente reazionario: prospettive che non indichino cioè l’unico luogo di risoluzione di questo conflitto in un ritorno ad un pacificato territorio dell’essere o, cosa che per certi versi è lo stesso, in un’irenistica, ideale e non meglio approfondita naturalità dell’esistenza umana. È proprio in quest’ottica che, a nostro avviso, va inquadrata la domanda posta in esergo al libro di Vincenzo Cuomo. Se Heidegger si sforzò, per tutta la parabola della sua riflessione, a indicare la necessità di procedere oltre la Metafisica, e se oggi questa esigenza si configura soprattutto nella possibilità di mettere in questione un’idea antropocentrica del mondo – il cui significato simbolico troverebbe nell’uomo il suo centro ermeneutico – l’interrogativo dell’autore ha dunque il senso di segnalare la possibilità di rintracciare questa istanza, in primo luogo, nella stessa opera del grande filosofo tedesco, e in modo particolare nella sua riflessione sull’origine dell’opera d’arte; sebbene nel contesto di un pensiero la cui complessità manifesta tensioni spesso in contrasto.
A riprova di questo, d’altronde, segnaliamo la direzione che sempre più orienta le ricerche di Cuomo, il quale ha recentemente curato, con Enrico Schirò, un volume intitolato significativamente: Decentrare l’umano. Perché la Object-Oriented Ontology (Kaiak 2021). La cosiddetta OOO, configurazione specifica di quel realismo speculativo che ha avuto un notevole riscontro nelle accademie anglo-americane, poggia infatti su una particolare interpretazione dello statuto ontologico dell’oggetto, rintracciata proprio, in primo luogo, nelle pagine di Heidegger. Secondo Harman, che di questa corrente è uno dei più autorevoli esponenti, è possibile rintracciare nell’interpretazione dello strumento esposta in Essere e tempo – quella per cui esso si sottrae alla nostra comprensione quando lo utilizziamo, e a maggior ragione appare in tutta la sua presenza opaca e perturbante nel momento di un guasto – la prova di una sostanziale asimmetria tra la fenomenologia degli oggetti e la loro essenza, la quale, per la maggior parte del tempo, si ritrae in un mondo a cui non ci è concesso di accedere (Harman 2002).
Ecco dunque che, sulla traccia di questo riferimento, possiamo comprendere ancora meglio la domanda di Cuomo, declinandola forse più propriamente in questo modo: per “che cosa” Heidegger? È infatti passando, con il supporto di un sempre puntuale riferimento ai testi e al problematico lessico del “secondo” Heidegger (in questo rintracciamo una scelta originale e coraggiosa, che aiuta l’autore a differenziarsi dalla citata via harmaniana), attraverso l’analisi dello statuto dell’oggetto, nelle sue diverse configurazioni di strumento, opera d’arte, macchinario tecnico, che sarà possibile indagare una peculiare, e paradossale, posizione dell’umano tra le cose del mondo. Queste ultime, infatti, se da un lato configurano l’orizzonte simbolico che sostanzia il riparo dell’uomo dai pericoli di una physis potenzialmente in grado di scompaginare quegli stessi significati, dall’altro segnalano, tramite quel residuo di cosalità che sempre resiste alla simbolizzazione, quello stesso pericolo.
È il senso di quello che Heidegger intende quando si riferisce all’opera d’arte come esemplificativa della tensione che anima il «conflitto tra Mondo e Terra», che diventa, lungo il testo dell’autore di questo saggio, il conflitto tra la concezione di un mondo antropizzato ed antropocentrico, che insedia l’uomo in una posizione di privilegio rispetto all’interpretazione dell’essere, e le istanze sub-, in-, post-umane che sempre più, dal regno animale, vegetale e inorganico, pretendono, tramite il manifestarsi di una presenza sempre più inaggirabile, un posto in quello stesso spazio dal quale si pretendeva di escluderle o, quantomeno, di marginalizzarle. Questa direzione interpretativa, che procede dunque oltre le intenzioni heideggeriane, servendosi del riferimento all’eco-ontologia di Timothy Morton – originale esponente di quella linea di pensiero prima segnalata con l’acronimo OOO – trova un ulteriore sviluppo grazie al ricorso, da un lato all’antropologia culturale, dall’altro all’impostazione antropogenetica di Peter Sloterdijk.
Infatti, quel mondo contadino in cui l’uomo cura il riparo della propria abitazione, addomestica, misura e pensa, sul fondamento della «viscosa ascosità della Terra», rapportato a un orizzonte più ampio «a partire da un allargamento di prospettiva temporale, attraverso il quale la “storia umana” è concepita come una storia interna a una storia biologica e geologica di magnitudo enormemente superiore» (Cuomo 2020, p. 11), appare come una configurazione interna a una determinata fase della storia: l’era Neolitica. Il discorso di Cuomo, dunque, riporta il contesto dell’analisi a quella che Heidegger definirebbe, probabilmente, una dimensione ontica. Ma questo riferimento ha in realtà il senso di un allargamento di campo, attraverso cui l’ordine della temporalità contadina, scandita dalla ciclicità dei rapporti tra raccolto e attesa, in cui la natura «appare uno sfondo delle attività umane in sostanziale equilibrio» (ivi, p. 48) è il risultato di condizioni particolarmente favorevoli e contingenti.
L’autore, inoltre, sottolinea un certo, indubitabile, tratto idilliaco del pensiero heideggeriano, il quale, nella descrizione delle caratteristiche di questo mondo, non ne analizza i momenti di violenza endemica. In ogni caso il mondo neolitico, proprio per via del suo carattere storicamente determinato, è un mondo già da sempre in crisi, poiché la natura che ne ha creato casualmente le condizioni è, come già accennato, sempre, in potenza, la riserva di forze pronte a scompaginarne gli equilibri. I fenomeni inerenti alla crisi ecologica, così, sono per Cuomo i segni di una crisi di senso più ampia, che viene da lontano e che caratterizzerà ancora per molto tempo il nostro rapporto col mondo. Il fatto che queste forze si configurino, in Heidegger, nell’imposizione dei criteri del mondo tecnico, sradicato, in cui si sgretola l’orizzonte ordinato dei significati, è un segnale di come, di questa crisi, il suo pensiero ne rappresenti un «sintomo alto».
Il merito dell’autore è dunque quello di segnalare, in modo convincente, come questa originale impostazione sia possibile analizzarla in riferimento alla duplicità del pensiero dello stesso Heidegger intorno alla physis, la quale «non è solo la “natura” che si oppone al mondo, ma è anche ciò che ha dato origine al mondo umano» (ivi, p. 25). La physis, intesa come potenza che origina, in modo del tutto contingente e casuale, la Lichtung, l’insieme delle condizioni che favoriscono il sorgere e il fiorire del mondo umano, e che sempre però lo minaccia di sparizione, è così anche la fonte che rende sempre possibile l’origine di un nuovo mondo, quello risultante dalla possibilità di “ponti ibridativi” tra quei domini dell’essere, quelle partizioni ontologiche tra umano/animale/inorganico che, sottolinea l’autore, in Heidegger restano sempre separate, nonostante la tensione che muove il suo pensiero tra l’antropocentrismo palese di Essere e tempo e la necessità di un oltre ontologico-epocale (quello ribadito nel saggio sull’umanismo). Tuttavia «fa parte della sua nozione (ambivalente) di physis il fatto che essa sia l’ambito all’interno del quale un mondo umano è sorto provenendo dal non-umano» (ivi, p. 29).
Così Cuomo, seguendo anche la traccia dell’analisi heideggeriana della noia come tonalità affettiva rivelativa, nella sua duplice accezione profonda e determinata, della crisi di senso in cui è sprofondata la soggettività umana nel mondo dell’imposizione (Gestell) tecnica, la interpreta di nuovo come un segnale della crisi di quei confini, culturali, simbolici e, in un certo senso, apotropaici, che l’uomo ha eretto a difesa del suo spazio privilegiato; e indica – è l’ultima “forzatura” ermeneutica che l’autore imprime alla sua argomentazione – in artisti contemporanei come Olafur Eliasson, Ruth West e Eduardo Kac, i quali, con le loro sperimentazioni, testimoniano la possibilità di un mondo ibrido, intessuto in una rete di esseri interdipendenti, in cui l’attività umana deve interfacciarsi con la presenza sempre più preponderante di forze provenienti dagli altri territori dell’essere, la figura di quei «poeti venturi» esposti, secondo Heidegger, al «pericolo estremo». La prefigurazione cioè di un’umanità che, venutagli meno la “Terra” sotto i piedi, crollata cioè la convinzione che questa esista soltanto in funzione e a misura dell’uomo, si trova anche nella possibilità di indicare una nuova origine, un altro orizzonte fatto di sensi, sempre più contaminati e plurali.
Riferimenti bibliografici
V. Cuomo, E. Schirò, a cura di, Decentrare l’umano. Perché la Object-Oriented Ontology, Kaiak Edizioni, Pompei 2021.
G. Harman, Tool-Being. Heidegger and the Metaphysics of Objects, Open Court, Chicago 2002.
Vincenzo Cuomo, Wozu Heidegger? L’arte nella (lunga) crisi del Neolitico, Aracne, Roma 2020.