Visages, villages è un film su un incontro: quello di Agnès Varda e dell’artista francese JR, fotografo e accanito viaggiatore, famoso per le sue installazioni sulle superfici più impensabili di tutto il mondo. Come mostrano loro stessi nella fantasiosa sequenza all’inizio della pellicola, i due avrebbero potuto incontrarsi mille volte prima del 2016, quando hanno iniziato le riprese. Ma il loro incontro avviene quando deve avvenire: quando per le loro età, entrambe a cifra doppia (33 e 88), è arrivato il tempo di specchiarsi l’una nell’altra. Lui, cappello nero e occhiali scuri, per conservare un anonimato che in alcuni paesi (alla frontiera tra USA e Messico, ad esempio) è necessario per riuscire a portare a termine i propri progetti.

Lei, capelli bicolore invertiti rispetto al «normale» (sopra bianco, come fosse una cascata di zucchero a velo, punte rosse); vitale sognatrice che continua a prestare la sua vista malata ad un lucidissimo sguardo bambino sulla realtà, è colpita dalla forza delle immagini di JR stampate come graffiti su muri e containers. Un paio di occhi di cui si difende l’identità, un altro che ha bisogno che la realtà si muova perché venga messa a fuoco e non resti opaca. Ma entrambi gli sguardi si dimostrano pronti ad essere tagliati ed esposti all’ispezione, bulbi oculari che da Un chien andalou (Buñuel, 1929) piombano direttamente nelle cassette del mercato, rispecchiandosi in quelli irreversibilmente aperti di pesci delle specie più diverse. Cosa combinano questi due personaggi? Decidono di partire insieme – «ils sont partants, tous les deux» – con il camioncino-macchina fotografica che accompagna JR in ogni sua avventura e che stampa in cinque secondi giganteschi ritratti in bianco e nero.

Vanno in campagna, «alla ricerca di volti, di villaggi», nei piccoli e sperduti paesi del sud della Francia e in Normandia. Ovunque si fermino, accolgono nel loro veicolo giovani, vecchi e bambini e riproducono le loro figure; poi, dopo averle stampate, riempiono pareti di volti, di sorrisi, di corpi. Corpi che addentano un’infinita baguette, si tendono le braccia sulle pareti di una fabbrica di sale, aprono una finestra come fosse una busta da lettere e vengono addormentati nella “culla” di un bunker tedesco crollato su una spiaggia del nord – quest’ultimo il ritratto di un giovanissimo Guy Bourdin, in una delle immagini più potenti del film.

Se dovessi sintetizzare in una sola frase l’avventura creativa di Agnès e JR, direi che questa coppia riesce nell’intento assolutamente materiale di muovere le immagini muovendosi essa stessa. Come dei maghi, il folle acrobata e la sua eroina – che da giovane sognava di esibirsi in pista come trapezista – vanno in cerca di materia grezza da mutare in buon umore, di emozioni da riattualizzare, paesaggi umani da ricomporre; come quando raccontano di aver dato vita, attraverso le fotografie, a finte famiglie, quasi stessero giocando con i loro vecchi pupazzi nel giardino di casa. Nel fare questo, non soltanto risvegliano il desiderio artistico di chi incontrano – bambini che fanno il solletico agli enormi piedoni della ragazza del paese ritratta con il suo ombrellino merlettato, l’operaio che definisce l’arte “una sorpresa”, l’allevatore che comincia ad immaginare le corna di una capra di diverse tonalità e diversi materiali – Pourquoi pas une chèvre? era il titolo originario del documentario.

La cosa più sorprendente è che riescano a rendere fluida la nozione di «abitare» fluidificando la sua stessa rappresentabilità: tutto comincia dalla fatale intersezione delle loro vite e procede nella spontaneità di nuovi incontri, di nuove esplosioni di fiducia che non si possono e non si devono giustificare. Agnès e JR vivificano l’impeto appropriativo che le persone che di volta in volta conoscono provano nei confronti degli spazi che popolano, il loro camioncino – macchina di incantata riproducibilità e oggettivazione che omaggia e piange il maestro Cartier-Bresson – abita la distanza esistente tra l’essere a casa propria e il sentirsi a casa propria. Esperienze e materiali si accumulano sulle loro ruote – anche quelle della carrozzella su cui Agnès siede e che JR spinge al Louvre correndo e ballando nelle sale vuote, in una chiara citazione di Bande à part (Godard, 1964).

Ad ogni incrocio con una realtà è concesso il respiro giusto per rielaborarla, approfondirla. E il tratto pertinente di questa rielaborazione è esattamente quella dimensione processuale del gesto e della ripetizione di una dimensione dell’abitativo che va costruita, edificata, mano-messa. È proprio attraverso la rete di rapporti di più identità che si sfiorano, che viene plasmato quell’essere a proprio agio, a casa propria, centrati nel proprio spazio, condizione solo in apparenza tirannicamente singolare ed egocentrica. Esattamente come prevede l’Inside Out project di JR , piattaforma web che chiede ai suoi utenti di inviare non meno di 50 ritratti a cui si vuole dare voce: l’équipe li sceglie, li stampa, li rinvia al mittente, spesso li installa personalmente – come nel caso della mastodontica “action au Panthéon” in cui il monumento si è riempito di volti sovrapposti. Uno spazio chiede di essere abitato, un’identità sente l’urgenza di essere ridefinita – la Lakota Tribe, per citare un esempio dei tanti -, riconfermata, oggettivata da uno sguardo esterno; mossa nel suo stesso luogo natio, perché solo in questo moto metamorfico troverà il suo contorno.

Un abitare manomesso, lasciato a riposare come l’impasto del pane in un intervallo sganciato dalla linearità del tempo e coraggiosamente in balia della possibilità e dell’imprevedibile, può collocarsi solo in una pura dimensione del vedere e del sentire. È un abitare dinamico che diviene tutt’uno con il vagabondare errante e senza scopo di due personaggi che fondono la loro andatura con la realtà circostante e raccontano il loro vedere, o forse ancora meglio è il loro vedere che li racconta. Sono sì protagonisti della storia che mettono in scena – e il loro saltuario «mettersi a tavolino» tra i gatti, nella cucina di Agnès, testimonia il tocco registico che si guarda indietro e analizza a tratti quello che sta succedendo. Ma anche la riorganizzazione dei materiali, il montarli insieme, rimane a servizio di uno sguardo che si è fatto vero sovrano, trascinandoli negli eventi e decidendo a monte il campo su cui, eventualmente, possono essere effettuati in un secondo momento dei tagli di carattere narrativo.

È l’obiettivo fotografico a farsi, più di ogni altro mezzo, postazione di un’osservazione contemplativa ma vitale, inattiva – se l’azione è ciò che vi è di meditato, progettuale, definente una volta per tutte caratteri e situazioni –ma proprio per questo sprigionante vita, aperta alla fluttuazione e al cambiamento. Quello che scorre nel viaggio dei due protagonisti è il tempo pieno dell’immaginario più che quello del reale, unico tempo disposto ad essere punto da iniezioni di atemporalità che lo buchino, lo slabbrino, lo svuotino perché in questo spazio bianco e privo di uno specifico fine si ricostituisca il senso dell’intero – d’altronde, come dice la regista, l’unico vero scopo «è il potere dell’immaginazione». È in questa dimensione infantile di una percezione diretta del mondo, limitata da un punto di vista motorio ma proprio per questo illimitata nell’invenzione, che la Varda vuole tornare ad immergersi.

Agnès decide di incontrare JR perché ha voglia di tagliare e incollare la sua capacità di abitare i luoghi, e non più solo sul tavolo di montaggio. Lei che ha sempre subito il fascino dell’animare una realtà attraverso la decomposizione, la sovrapposizione e la messa in dialogo di materiali, ispirazioni, stimoli diversi, questa volta ha voluto giocare con la carta, partire con un camion una settimana al mese per qualche tempo e far aderire superficie a superficie con le mani. È un’azione del montare che vuole regredire al “primo grado della comprensione”, pura e gioiosa, allucinatoria e un po’ narcisista nella sua assoluta libertà – “Se volete farci una multa rivolgetevi ad Agnès” dice JR, ma nessuno si sognerebbe mai di multare questa donna. Piantare come fossero bandiere specchi e fotografie di famiglia sulla battigia, mettere in scena in riva i propri quadri d’infanzia o riempire di sabbia una strada del 14è arrondissement (Les plages d’Agnès, 2008) erano forse prime manifestazioni di questa pulsione.

Ma la regista lascia il proprio autoritratto e inverte la direzione nascondendosi nelle immagini altrui e nelle lenti scure di JR. Salvo poi, perché giocare con se stessi è troppo bello per essere totalmente abbandonato, farsi “smembrare” dall’obiettivo del compagno e incollare le proprie membra ai vagoni di un treno merci che continuerà a viaggiare e a giocare anche quando Agnès non ci sarà più. JR, che del movimento e della connessione immediata con il reale – al di fuori del copia/incolla e della vita fantasmatica sui social network – ha fatto la sua vita, diventa così per lei lo strumento per eccellenza di relazione e mobilità: qualcuno che la possa portare in giro, far viaggiare, muovere le sue immagini e le sue intuizioni. Questa pellicola sorge dal desiderio di muovere i propri spazi (ormai limitati) nel muovere – trasformare, ravvivare, ricomporre – quelli degli altri, giocare con i propri pezzi di vita dissezionando materiali prestati o donati da esterni. Soprattutto, farlo compiendo un passo indietro nel processo di mediazione e rimediazione che ha accompagnato l’artista per tutta la sua vita: Varda in questa pellicola si nutre ancora di riproduzioni, ma le tocca e le incolla alle rocce, con il rischio che vengano portate via da un’onda più forte delle altre – una “vague” di schiuma inattesa e spiazzante, non più quella “nouvelle” ma ormai decisamente familiare. E allora è anche giusto e comprensibile che l’amico Godard, che sul finire del viaggio la Varda decide di andare a trovare dopo tantissimi anni, non le apra la porta: di fronte al cedimento nostalgico della vecchia Agnès, farla entrare avrebbe voluto dire cancellare l’intenzione primigenia del film, quella di muoversi in altro modo. Jean-Luc non poteva saperlo, ma ha fatto bene così.

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