Il grande allestimento filosofico nietzscheano cerca, ricostruendo il procedimento attraverso cui la norma si trasforma in una disponibilità interiore all’addomesticamento sociale, di rispondere alla domanda sullo statuto dell’obbedienza. Sarebbe, come è noto, nell’impianto confessionale del cristianesimo, sfociato poi nel dispositivo governamentale moderno,  la radice del disciplinamento. Alla domanda: “Perché obbediamo?” Con Nietzsche possiamo rispondere che l’obbedienza è il frutto di una secolare quanto capillare operazione antropologica di trasformazione dell’essere umano in gregge.

Si deve, invece, a Michel Foucault la definizione di neoliberalismo come arte di governo che abdica alla costruzione d’obbedienza attraverso la disciplina dei corpi in favore di un’azione sull’ambiente in cui si muovono gli individui e sulle variabili in gioco. Ciò che fa il neoliberalismo è governare indirettamente attraverso la libertà limitandosi a intervenire sugli ambienti dentro il quale l’homooeconomicus vive. Ambienti, ca va sans dire, che non hanno nulla di naturale ma sono dettagliatamente concepiti per poter funzionare da mezzo di governo. Obbedire non proverrebbe da un correlato naturale, né sarebbe tanto meno il corrispettivo della legge, bensì l’esito di precise dinamiche politiche economiche. Grazie a Nietzsche e Foucault, dunque, sappiamo allora che l’obbedienza si definisce come il risultato di precise strategie di governo.

Inserendosi in un dibattito recente, con un libro uscito in Francia nel 2013 ma solo recentemente tradotto e pubblicato in Italia per Novalogos, Valutatemi! Il fascino discreto della meritocrazia, Bénédicte Vidaillet prova a far emergere, in maniera assai intrigante, la co-implicazione tra obbedienza e libertà a partire dalla questione della valutazione. Perché ci lasciamo tanto docilmente valutare?

L’operazione della Vidaillet, mi sembra, molto vicina a quella di Valeria Pinto che solo un anno prima, nel 2012, nel suo Valutare e punire, con l’intenzione di imbastire una critica del processo di imprenditorializzazione dell’università e della scuola, analizzava la cultura della valutazione a partire dalla definizione di neoliberalismo come “tecnologia ambientale”. La valutazione in quel testo illuminante appare come una tecnologia o meglio ancora un modo di esistenza dell’attuale governo neoliberale. In breve, il modo in cui si struttura l’obbedienza oggi è la valutazione; si governano le condotte attraverso la valutazione.

Vidaillet parte dalle stesse premesse che tuttavia liquida rapidamente nelle prime pagine del testo, dando, in qualche modo per assodato, lo statuto neoliberale della valutazione. Secondo Vidaillet, professoressa di Psicologia dell’organizzazione presso l’Università di Parigi XII e psicologa del lavoro, infatti, l’approccio foucaultiano non riesce a soddisfare fino in fondo il problema del nostro bisogno di valutazione. Per questa ragione prova a rintracciare l’origine (ammesso che esista) psicologica dell’obbedienza frammentata in un’ipertrofia valutativa, un’ossessiva richiesta di valutare ed essere valutati.

Partiamo dai fatti: la valutazione è dappertutto e in ogni luogo – così l’incipit del libro –; negli ultimi trenta anni avrebbe conquistato tutte le funzioni, tutti i campi dell’attività e dell’esperienza. Numerosa la letteratura in merito, numerose le critiche nei confronti dell’uso eccessivo nelle organizzazioni aziendali e degli «effetti globalmente nefasti e preoccupanti»: costi, bassa motivazione, peggioramento dell’ambiente di lavoro e delle perfomances lavorative, degrado della salute, tensioni e disgregazione dei legami sociali, mascheramento di risultati reali attraverso una cattiva misurazione, simulazione e strategie di aggiramento, instabilità permanente, una totale incapacità di proiezione a lungo termine e altro ancora.

Se Pinto prendeva in esame i processi di valutazione nell’ambito della ricerca e dell’istruzione pubblica, Vidaillet utilizza materiali diversi: casi di studio che ha lei stessa realizzato o diretto. Oppure studi presi in prestito da altri ricercatori, soprattutto di sociologia, come per esempio quello di Belorgey sulla gestione manageriale di un ospedale o di Monchatre sulle pratiche di valutazione nelle catene di hotel. Osservazioni derivate dalla sua pratica clinica; «esempi di tutti i giorni», come la trasmissione di cucina Masterchef, che dimostra efficacemente la promessa narcisistica della valutazione; documentari sul mondo del lavoro, in particolare la serie di Jean-Robert Viallet, La Mise à mort du travail; casi di giurisprudenza.

Nonostante, come emerge dalla documentazione presa in esame, la dimensione patogena della valutazione sia unanimemente riconosciuta, si assiste allo «strano paradosso» per cui l’esistenza e la legittimità della valutazione in quanto tale non venga mai messa radicalmente in discussione. Al contrario, perfino la critica alla valutazione diventa pretesto per il suo mantenimento e il suo rinforzo; in “un ancora più” di valutazione, che suscita, come suggerisce il titolo originale, una pervasiva “fascinazione”. Fascino che ricorda un certo incantamento per il potere e per la sua potenza capace di inquadrare, di normalizzare e di penetrare nello spirito delle soggettività a lavoro. In altri termini, la valutazione ci cattura e avvolge.

Sono fondamentalmente tre le domande da cui sorge la ricerca di Vidaillet: perché nonostante gli effetti deleteri della valutazione vogliamo intensificarla? Cosa c’è dietro alla domanda di valutazione? Come opera su di noi a livello psichico? Si tratta di uscire da una posizione complottista per la quale subiremmo la valutazione a nostra insaputa e nostro malgrado, accettandola passivamente come una pressione dall’esterno che si impone. In maniera del tutto consenziente, invece, esiste un’esigenza psichica del soggetto di essere valutato. Esigenza che il testo di Vidaillet si prende in carica di ricostruire nella convinzione che sia necessario prendere sul serio non tanto la valutazione in sé quanto «il desiderio di sottoporsi ad essa» (p. 11), il nostro bisogno di essere valutati. Insomma, starebbe in questa volontà di valutare il cuore del problema dello sviluppo pervasivo della cultura della valutazione.

Rappresentata con l’immagine delle sirene di Ulisse, la valutazione ci seduce con la promessa di risolvere quelli che per Vidaillet rappresentano gli irrisolti ontologici dell’essere umano: la mancanza rispetto alla propria essenza e il rapporto con l’altro. A questo proposito sono convocate la definizione lacaniana del soggetto e dell’altro, un soggetto preso in considerazione per la non-completezza di sé e un altro che lo obbliga a lottare contro la sensazione di essere manovrato da qualcosa che sfugge sempre alla presa.

La valutazione offre l’illusione di gestire e colmare mancanze: la mancanza di gratificazione, di riconoscimento laddove invece scatena invidia, rivalità, e costruisce una domanda insana dell’altro, chiuso in un puro rapporto narcisistico strumentale alla valutazione, misura del se stesso, rivale o modello, elemento di competizione o d’imitazione. Detentore di qualcosa – che per Lacan è il godimento – da sopprimere, da controllare o di cui appropriarsi. In questo senso, diversamente da quanto paventa la logica performativa, la valutazione non fornisce il necessario equilibrio psichico: «Contribuisce fortemente a distruggere il nostro desiderio di lavorare, la nostra relazione con l’altro e con l’ambiente di lavoro» (p. 44).

Il rapporto con la valutazione, del resto, è talmente “intimo” che ha da tempo scavalcato i confini dell’ambito professionale, espandendosi nella sfera sociale e andando a investire la gioia del consumatore, la soddisfazione dell’utente, il benessere del paziente. Tutti partecipiamo al grande gioco della valutazione: difficilmente districabile, quindi, la matassa in cui i ruoli di valutato e valutatore si sono irrimediabilmente mischiati. In questa sorta di circolo vizioso in cui «ognuno ha il diritto di valutare l’altro» (p. 200) e di essere valutato emerge come nodo cruciale della questione il potere di controllo, che lacanianamente per Vidaillet, produce godimento.

La valutazione incarna una visione del mondo, un’escatologia, il cui scopo è instillare i dogmi del neoliberalismo: «Col pretesto di valutare, si normano, si dirigono, si prescrivono e si inquadrano i comportamenti» (p. 36). Con la sua «promessa di trasparenza» (p. 126) schiuderebbe una tecnologia psichica del governo delle vite nel quale la giustizia è raggiunta attraverso l’eliminazione dell’incertezza e l’imposizione di un punto di vista assoluto e oggettivo per il quale non servono interpretazioni, ma solo evidenze oggettivamente accertabili e quantitativamente misurabili.

In questo senso si tratta di decostruire l’ideologia della valutazione per «far finire l’incantesimo» e per capire come, attraverso le credenze sulle quali si poggia, l’ordine del discorso che predica e i dispositivi che diffonde, riesca a farci accettare la disposizione alla servitù volontaria: «Uscire dall’ideologia della valutazione significa far uscire da sé stessi l’ideologia della valutazione» (p. 45). Il problema dell’obbedienza affiora qui chiaramente in tutta la sua tensione, ciò non di meno Vidaillet perde la scommessa nella misura in cui conferisce al movimento di uscita dalla gabbia valutativa il carattere di una decisione individuale e di una presa di distanza esclusivamente psicologica.

Come scrive bene Francesca Coin nella postfazione del libro, questa amministrazione dell’evidenza – per usare le parole di Pinto – è tutta interna alla nuova ragione del mondo che costruisce l’obbedienza proprio sull’auto-sorveglianza reciproca dei numeri: «Vidaillet non entra nel merito delle politiche macro-economiche, né nel merito della relazione che esse hanno con la valutazione a partire dalla svolta neoliberale iniziata alla fine degli anni Settanta» (p. 221).

Vidaillet quindi finisce per dimenticare lungo il corso della sua narrazione, l’origine economico-politica della psicodinamica del lavoro finendo per ricadere nell’astuzia della ragione neoliberale, che è riuscita a de-responsabilizzare i processi economici e a far ricadere tutta la responsabilità sul singolo, lasciandoci con «i sintomi e quel surreale senso di eternità del discorso neoliberale che non cessa di fare capolino tra le pagine» (p. 223). Se è certo che la valutazione fa emergere debolezze, frustrazioni, opportunismi, le cause non possono essere esclusivamente spiegate attraverso un individualismo psichico soggettivistico che concentra l’attenzione sulla condotta individuale e non tiene conto del fattore sociale.Così facendo il metodo psicoanalitico rischia di prestare il fianco alla logica della razionalità neoliberale che de-alfabetizza politicamente la società e ci riduce a unità iper-individualizzate e potenzialmente a-sociali.

Riferimenti bibliografici
V. Pinto, Valutare e punire. Una critica della cultura della valutazione, Cronopio, Napoli 2012.
B. Vidaillet, Valutatemi! Il fascino discreto della meritocrazia, Novalogos, Aprilia 2018.

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