Nel decennio trumpiano si sono moltiplicati articoli, libri, documentari che hanno indagato, ciascuno con le proprie peculiarità stilistiche e specificità tematiche, la fitta rete di intrecci religioso-politici del conservatorismo bianco americano, un fenomeno generalmente definito come cristianesimo nazionalista, ma anche connotato come sionista e fascista, che, pur affondando le radici nel passato, si è posto come effettivo rischio di una teocrazia della minoranza con l’avvento politico di Donald Trump, visto come il “prescelto” che la possa realizzare.
Per sintetizzare l’argomento ci siamo avvalsi in particolare di due notevoli documentari, Praying for Armageddon (2023) di Tonje Hessen Schei e God & Country (2024), prodotto da Rob Reiner e diretto da Dan Partland, e dei contributi dello scrittore Jeff Sharlet, autore sia di The Undertow: Scenes from a Slow Civil War (2023), che confronta le tre campagne di Donald Trump sottolineandone la deriva sempre più fascista, sia dei due libri alla base della serie Netflix The Family (2019), che svela impressionanti intrighi politico-religiosi nazionali e internazionali nel nome di un Gesù frullato ad arte in un libretto di poche pagine ad opera del “Mago di Oz” Douglas Coe, per 50 anni potentissimo leader dell’organizzazione. Fondata nel 1935 dall’evangelista conservatore Abraham Vereide col nome di Christian Fellowship, e ribattezzata The Family da Coe che la rese quasi occulta per aumentarne il potere come mafia e nazismo gli avevano insegnato, The Family organizza ogni anno l’internazionale National Prayer Breakfast, volutamente fatto passare come evento del Congresso, cui hanno partecipato tutti i presidenti da Eisenhower a Biden. Scomparso nel 2017, già nel 2015 Coe aveva visto in Trump non solo il tanto atteso “prescelto”, ma il “re dei lupi” in grado di instaurare il governo di Dio sulla terra.
Relativamente a Praying for Armageddon e God & Country, pur presentando elementi e personaggi comuni – ad esempio l’assalto a Capitol Hill, o le due discusse deputate trumpiane Marjorie Taylor Greene e Lauren Boebert, peraltro acerrime nemiche, o il televangelista-nazionalista Robert Jeffress – il primo sviluppa soprattutto il filone biblico-sionista del connubio cristiano-politico e il secondo la sua evoluzione nella storia americana partendo dal falso mito secondo cui esso sia sancito nella Costituzione. Non mancano, in entrambi, pastori dell’evangelismo conservatore allontanatisi dalle loro chiese divenute estremiste e lontane dai classici valori cristiani di amore, pace, fratellanza e carità.
Quanto alla teoria del “prescelto”, poco importa che Trump finga di conoscere la Bibbia o che abbia condotto una vita empia sotto tutti i punti di vista. Re Davide regnò impunito nonostante avesse sedotto e messo incinta Betsabea e fatto in modo che il marito di lei morisse in battaglia. Per non parlare del “vascello” di Dio, il re di Persia Ciro, che pose fine all’esilio babilonese degli ebrei. Pezzo forte della narrativa trumpiana, l’analogia tra Trump e Ciro, celebrata anche da una moneta con le effigi di entrambi, è stata utilizzata anche da Benjamin Netanyahu nel 2018 quando Trump spostò l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme sotto le pressioni del vice presidente Mike Pence e del segretario di stato Mike Pompeo, cristiano-nazionalisti di ferro, artefici anche dell’uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani nel gennaio 2020. All’inaugurazione presenziarono anche le due principali autorità religiose del movimento, il già citato Robert Jeffress (1955) e John Hagee (1940), consiglieri personali di Trump e capofila della teoria della letteralità della Bibbia: «B-I-B-L-E: Basic Information Before Leaving Earth», declama Hagee in Praying for Armageddon, riferendosi soprattutto al Libro della Rivelazione che profetizza la Rapture, ossia la scomparsa improvvisa di persone prelevate da Dio prima del periodo della Tribolazione, quando terribili calamità culmineranno nello scontro finale dell’Armageddon e nella seconda venuta di Cristo sulla terra, un Cristo guerrigliero con la spada, pronto a uccidere tutti gli infedeli che non si convertiranno al Cristianesimo prima di dare inizio al suo millennio di regno di pace.
Il fatto che prerequisiti indispensabili siano la riconquista ebraica del Greater Israel e la ricostruzione Tempio di Gerusalemme spiega l’apparente contraddizione ben sintetizzata in un pezzo del Guardian del dopo-7-ottobre 2023: «Il supporto degli antisemiti per Israele è strano. Il supporto ebreo per loro è ancora più strano». Non stupisce dunque che John Hagee sia il fondatore del Cufi (Christian United for Israel), un’influente organizzazione finalizzata, si legge sul sito, «a rendere Israele più forte e la sua popolazione più sicura» e «a combattere l’antisemitismo in tutte le sue forme ovunque si trovi», tacendo però che Israele è solo una pedina di un piano ben più ampio alla cui base non c’è l’amore per gli ebrei, ma quel nazionalismo cristiano secondo il quale gli Stati Uniti sono stati creati in un patto separato con Dio per essere una teocrazia cristiana con il compito di liberare il mondo dalle forze del male, ebrei compresi a meno che non si convertano. Con i suoi presunti 10 milioni di iscritti il Cufi è un enorme bacino elettorale per il partito repubblicano trumpiano.
A dispetto dei suoi errori biblici, Trump ha astutamente puntato sul suo ruolo di difensore della Cristianità fin dal 2015-16: «Noi proteggeremo i cristiani. I due Corinzi, giusto? [invece di Seconda Lettera ai Corinzi] I cristiani non usano il loro potere. È la lobby più potente che sia mai esistita, eppure non ho mai sentito parlare di una lobby cristiana». Inoltre il fatto di avere eletto tre justice ultra-conservatori, permettendo alla Corte Costituzionale di rovesciare la sentenza Roe vs Wade sull’aborto – per quanto il vero elemento aggregante del nazionalismo cristiano fu l’abolizione delle esenzioni fiscali alle scuole religiose bianche che all’inizio degli anni ‘70 continuavano la segregazione – non solo ha posto Trump al di sopra dei suoi predecessori repubblicani, da Reagan ai due Bush, che con gli evangelici conservatori avevano “over-promised” ma “under-delivered”, ma ha rafforzato ma la sua venerazione “cristiana”. Nell’assalto al Campidoglio la folla dei suoi seguaci non era munita solo di armi ma anche di tutti i simboli cristiani possibili e immaginabili.
Secondo Jeff Sharlet quell’episodio ha dato il via all’“era dei martiri” che ha caratterizzato la terza campagna trumpiana. Se nella prima dominavano i toni trionfalistici della ricchezza e del potere come segno della benedizione di Dio in base al “Prosperity Gospel” del predicatore Norman Vincent Peale (1898-1993) – colui che «ha ridotto il Vangelo a un manuale per commessi viaggiatori» che insegna come usare Dio per i propri scopi terreni, nonché uno dei tre mentori che Trump ha inserito nella sua Santa Trinità personale insieme a suo padre Fred e al diabolico avvocato Roy Cohn – la campagna del 2019-20 ha introdotto elementi oscuri e misteriosi che «sanno molto di fascismo»: una sorta di “vangelo gnostico americano modernizzato e bastardizzato”, alla cui base c’è «l’idea di un prescelto e di un piccolo gruppo di iniziati con conoscenze segrete che gli altri non hanno.» L’“era dei martiri”, figure chiave «per istigare le folle alla violenza» ha accentuato la simbologia mistica: la morte in Campidoglio di Ashli Babbitt, la trentaseienne bianca armata di un coltello beatificata come un’adolescente senza macchia, ha funzionato alla perfezione e la sua uccisione da parte di un poliziotto nero ha rievocato uno dei topos più popolari della storia americana, canonizzato dal film Birth of a Nation (1915) di D.W. Griffith. Ma il martire per antonomasia è lo stesso Trump, vittima della “frode elettorale” e di processi “ingiusti” e “corrotti” che hanno giustificato i sempre più numerosi riferimenti e autoriferimenti a Gesù Cristo.
E poi ci sono i due attentati che, sebbene scalzati dalla cronaca dagli exploit democratici (ritiro di Biden, nomina di Kamala Harris, sondaggi che la vedono in crescita), sono considerati segni dell’intervento di Dio che ha miracolato l’ex-presidente affinché compia il suo destino, strettamente legato a quello di supremazia teocratico-politica degli Stati Uniti. Il fatto che i cristiani-nazionalisti siano siano una minoranza, da un quarto a un terzo della popolazione americana, è irrilevante poiché, in un paese dove l’astensionismo va dal 40 al 50%, un gruppo minoritario ben finanziato, organizzato e motivato che vota in proporzioni straordinarie può facilmente vincere. Un concetto che in God & Country vediamo espresso nel 1980 dallo stratega repubblicano Paul Weyrich, convinto della necessità di integrare nella politica i numerosi potenziali elettori della destra evangelica, allontanandoli dall’idea diffusa tra i cristiani che tutti debbano votare: «Io non voglio che tutti vadano a votare. Le elezioni non sono vinte dalla maggioranza della popolazione. Non lo sono mai state fin dalla nascita del nostro paese. Anzi il nostro potere aumenta quanto più diminuisce la popolazione che vota». È quindi l’ancora incerta affluenza al voto da parte democratica e repubblicana negli stati in bilico che mantiene le prossime elezioni sul filo del rasoio.
Riferimenti bibliografici
J. Sharlet, The Undertow: Scenes from a Slow Civil War, W. W. Norton & Company, New York 2023.
J. Sharlet, The Family: The Secret Fundamentalism at the Heart of American Power, HarperCollins, New York 2008.