Il deserto del Negev, che occupa circa il sessanta per cento dello Stato di Israele, è stato utilizzato come set cinematografico oltre che per diverse produzioni mediorientali anche per film hollywoodiani, di cui il più celebre rimane sicuramente Rambo III (1988). Il paesaggio brullo, arido e montuoso del deserto richiama quello dell’altopiano del Rigestan in Afghanistan, dove la storia del film è ambientata, in cui Rambo aiuta la popolazione locale a sconfiggere i nemici invasori sovietici. Under a Blue Sun di Daniel Mann si apre con un filmato di repertorio, un’intervista a Silver Stallone che parla dell’esperienza di aver girato in Israele. “Credo abbia fatto bene al film. È un luogo abbastanza estremo. […] Il contesto era abbastanza teso. Penso che percepire l’instabilità mi abbia aiutato in un certo senso. Questa sensazione di nervosismo faceva sì che fossimo tutti un po’ in allerta. Anche in hotel non ti sentivi al sicuro”. Mentre l’attore parla di attacchi terroristici capitati anche davanti all’albero in cui alloggiavano, le immagini di repertorio mostrano dei giornalisti inviati per documentare gli accaduti venir allontanati dai militari israeliani e a cui viene impedito filmare.

A questo punto assistiamo alla testimonianza di due persone coinvolte nella lavorazione di Rambo III, due degli addetti agli effetti speciali. Bashir, il primo, descrive ad esempio come sia stato ricostruito il villaggio afghano, il secondo invece, un ex soldato israeliano, addetto agli esplosivi, racconta la stretta collaborazione che c’è stata tra l’esercito di difesa (IDF) e la produzione americana, tanto da lasciare la possibilità di girare alcune scene durante un addestramento. Vengono mostrati alcuni filmati d’archivio riguardanti esercitazioni militari realizzate dall’eser­cito israeliano negli anni Sessanta e Settanta, soldati impegnati a guidare i carri armati, a caricare i proiettili nei cannoni e nei mor­tai, perlustrare e mappare il territorio, così come sono presentate coreografie aeree spettacolari. Questo materiale, tra l’altro, è lo stesso impiegato da Kamal Aljafari per il suo film Paradiso XXXI, 108 (2022), dove, manipolato e rimediato, perde l’intento propagandistico e auto-celebrativo per cui era stato realizzato in prima istanza, decostruendo il racconto e le retoriche che lo hanno prodotto.

Nel frattempo, sotto forma di una corrispondenza epistolare impossibile con Silvester Stallone, da cui non riceve mai risposta, il regista pone e si pone delle domande che partono dal contesto relativo alla produzione del film per riflettere intorno alle molteplici possibilità di costruzione/ricostruzione di un paesaggio così come di un immaginario. A quanto affermano gli accordi stipulati, era necessario assicurarsi che i luoghi ripresi nel deserto in Rambo III non fossero identificabili. Uno dei direttori di produzione suggerisce allora di sostituire il rosso del cielo con una tinta blu più fredda da rendere il luogo strano e sconosciuto. “Sotto un sole blu è l’Afghanistan”. “Come è possibile però filmare una terra senza svelarne la geografia?”, si interroga il regista. Cambiare ripetutamente i connotati al paesaggio, la sua fisionomia, mascherandone i caratteri identitarii e le tracce storiche segna profondamente un luogo così come le narrazioni che da questo scaturiscono. Il deserto del Negev è una terra contesa, in cui, a partire specialmente dai primi anni duemila, sono stati fatti moltissimi investimenti da parte del governo israeliano per occupare l’aerea attraverso la costruzione di nuovi insediamenti coloniali. La terra in cui abitavano le popolazioni beduine a mano a mano espropriata. Nel film viene intervistata un’attivista, Sabrin Abu-Kaf, che fa parte del Forum di Coesistenza del Negev, un gruppo che vede sia arabi che ebrei lottare per la tutela dei diritti della popolazione che abita il deserto, specialmente le tribù beduine. Per il progetto “Riconoscimento” alle donne viene data una telecamera per filmare le condizioni di vita in cui vertono, le proprie case senza elettricità, senza acqua, i bambini che devono camminare per due ore per andare a scuola in un altro villaggio, la mancanza di servizi, così come la violenza dell’occupazione perpetrata quotidianamente dai militari, dalle perquisizioni alle demolizioni delle abitazioni.

La quasi esclusiva presenza femminile in questo caso, così come per quanto concerne un’altra organizzazione come B’Tselem, che documenta la violazione dei diritti umani da parte di Israele, è data dal fatto che le donne sono meno bersaglio dei soldati rispetto agli uomini, e che tendono a farsi coinvolgere meno negli scontri, sia emotivamente che fisica­mente, in modo da mantenere la giusta distanza nel ripren­de gli eventi. Come sottolinea Ginsburg, nelle pratiche di attivismo delle donne palestinesi è interessante notare come l’abita­zione diventi un luogo per una resistenza anticoloniale. Lo spazio abitativo non è uno spazio privato, ma soggetto a continue perquisizioni, attacchi, introduzioni e demolizioni. La prospettiva della videocamera permette alle donne di guardare dall’alto verso il basso cosa succede nelle strade, dalla propria abitazione. Ginsburg associa lo spazio della casa ad una camera oscura, «una camera oscura in cui la donna vede e non è vista, osservando l’evento senza farne parte» (2016, p. 12).

Nel corso degli anni, uno spazio che appare immutato e immutabile come quello di un deserto ha invece subito innumerevoli stravolgimenti. Il governo israeliano ha piantato dei pini vicino ad una fonte d’acqua, fornendo un parco ai coloni della zona residenziale, con l’intenzione di costruire un campo da golf e altre attività ludiche e ricreative. Tuttavia, questo spazio, che prima veniva usato dai beduini per l’agricoltura, è diventato inutilizzabile per questo scopo. Le varie tribù del deserto, allontanate in Giordania e Libano dopo la Nakba del 1948 e la fondazione dello Stato ebraico risultano essere clandestine, non autorizzate a rimanere a vivere nel deserto. Il governo israeliano blocca qualsiasi tentativo da parte del popolo beduino di ampliare il proprio villaggio con nuove costruzioni, tanto che vengono utilizzate forme di occultamento per sfuggire anche alla sorveglianza aerea. Le rovine degli edifici abbattuti possono venire riconvertite in nuove abitazioni così come altri spazi dedicati in un primo tempo al bestiame, molte volte devono essere trasformate in case. Esplicative delle dinamiche di dominio e sopraffazione messe in atto nei confronti della popolazione palestinese risultano essere le parole dell’ex Presidente Shimon Peres, che in una intervista d’archivio, parlando dei lavori di “abbellimento” del Paese, riflette su come mai Israele abbia dei problemi con altre nazioni. “È perché Israele vive, esiste ed opera contro le leggi della natura, perché ha creato una sua natura”, piegando e segregando una popolazione così come un territorio.

Riferimenti bibliografici
R. Ginsburg, Gendered visual activism: Documenting human rights abuse from the private sphere, in “Current Sociology”, vol. 66, n. 1, 2016, pp. 1-18.

Under a Blue Sun. Regia: Daniel Mann; sceneggiatura: Daniel Mann; fotografia: Itay Marom; montaggio: Simon Birman; interpreti: Bashir Abu Rabiah, Lobla Alsana, Dani Ben Menachem; produzione: Acqua Alta, La Bête, Laila Films; origine: Francia, Israele; durata: 80′; anno: 2024.


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