Dopo l’importante Ambienti mediali – di cui già si è scritto sulle pagine di questa rivista – è arrivato il terzo volume della serie Plexus di Meltemi, Cultura video. Le riviste specializzate in Italia (1970-1995) di Diego Cavallotti. Non bisogna lasciarsi intimidire dal sottotitolo, che può far pensare a un eccesso di specificità. Tutt’altro: il libro tratta del video come di una pratica ordinaria, presente nella maggior parte delle vite vissute negli ultimi quarant’anni. Ma non per questo quella che ci viene proposta è una storia troppo comune. L’essenza del saggio sta nel percorso metodologico intrapreso, che serve a segnalare la difficoltà del procedimento storico nel momento in cui abbandona il porto sicuro dell’arte. Allo stesso tempo, ci dà un assaggio di quello che viene dall’esplorazione del complesso di cultura popolare, tecnologie molteplici e strutture epistemiche che sta oltre quel porto. Questa difficile traversata è l’unica che porti all’oggetto specifico dello studio. Così, gli urti causati dall’introduzione delle tecnologie e il processo di normalizzazione che li segue possono essere letti sulle pagine di alcune riviste la cui vita coincide con quel fermento post-traumatico (quel lavoro di appropriazione che Freud faceva seguire a uno choc) che è la cultura video.
La prima sezione si dedica alla definizione di questi due termini, “cultura” e “video”, a cui segue un capitolo sulla cronologia tecnologica in Italia, più centrata sulla diffusione popolare che sulle nuove ideazioni tecniche. Sono due i concetti fondamentali riguardanti la metodologia che a mio parere bisogna sottolineare e che contengono la forza del libro. Da un lato un’idea precisa di cultura che, come spiega diffusamente l’autore, si ispira al lavoro di Raymond Williams. Non si tratta della tradizione, né come memoria collettiva né come gruppo di opere classiche, bensì della creatività radicalmente ordinaria che è nel potere del singolo e dei suoi mezzi sociotecnici (e di come questa venga negoziata dai discorsi, per esempio dalle riviste). Ciò dipende anche dal periodo storico preso in esame. A differenza del primo dopoguerra, non sono più le avanguardie artistiche a guidare la sperimentazione tecnica, di modo che la contrapposizione tra modernismo e massa lascia il posto a quella tra industria e status dell’individuo (consumatore, utente, audience: l’incertezza della denominazione riflette il conflitto).
In secondo luogo, è l’idea di dispositivo ad essere presa lungamente in esame. Se l’oggetto audiovisivo si muove verso l’ibridazione man mano che i modi di produzione si fanno più complessi, il “video” sta invece a indicare quella rete di possibilità tecniche, competenze, discorsi e istituzioni che non si vedono direttamente sullo schermo. Così la cultura video non coincide con il suo oggetto audiovisivo e si evita una posizione onto-tecnologica (identificare l’immagine in base al supporto, idea che appare sempre meno sostenibile). Il dispositivo si rivela a tal punto contingente da far pensare che sia costitutivamente eterogeneo e diacronico: tutto il network – dalla politica dei prezzi delle aziende ai loro dipartimenti di ricerca e sviluppo, dai valori messi in primo piano dagli utenti al loro saper fare – reagisce a problemi e convenienze che gli si presentano davanti volta per volta.
Di particolare importanza è la dialettica di coesistenza e transizione delle tecnologie. Se il video rincorre la maneggevolezza e la qualità del film substandard, la pellicola cerca di recuperare l’immediatezza e la capacità di registrazione del video. Nascono una serie di ibridi appassionanti: la cinecassetta, i proiettori super8 sonori piccoli come televisori o la pellicola a sviluppo immediato con suono integrato, solo per dirne alcuni. Appare tutto il dinamismo del dispositivo-assemblaggio; alcuni device possono identificarsi per sineddoche con tutta una tecnologia, mentre altri magari si perdono nell’obsolescenza, ma non c’è una totalità stabile che possa chiamarsi “video”. Diego Cavallotti conia un termine che indica l’incontro di due panorami mediali che si ridefiniscono a vicenda, interdispositivo, ovvero la «rete discorsiva, materiale e pratica che si viene a determinare nel momento in cui due o più orizzonti di dispositivo si trovano a interagire» (Cavallotti 2018, p. 111).
Progressivamente, il campo d’indagine del volume si restringe sulla parte sociale del dispositivo. Allora si mette a fuoco il potere delle riviste specializzate di guidare il rapporto dell’utente con l’industria, tramite la costruzione di framework concettuali per l’innervazione sociale dell’individuo. L’idea è che il carattere creativo della cultura si presenti nell’attività di negoziazione tra attività formalizzate, cioè i discorsi che educano alla “buona pratica” audiovisiva, e il residuo tattico, ciò che non è ancora normato. Questo rapporto lascia una traccia nelle riviste che immaginano l’utente, come suggerisce anche uno schema di Andreas Fickers e Annie van den Oever, che collega i tipi di utente alle fonti nelle quali trovare le sue tracce (presente in Archeologia dei media, il primo volume di Plexus).
Come scrive nell’introduzione, Cavallotti guarda alla cultura dal punto di vista della creatività individuale, la capacità di testare le tecniche e i loro significati. Prima che un oggetto abbia una regola per funzionare, esso va provato. Bruno Latour ha scritto che si è idealisti quando un oggetto tecnico funziona e materialisti quando si cerca la soluzione a un guasto. Nel secondo caso appare come l’attività dell’utente si organizzi in funzione del feedback: è quindi situata. Si noti come la preoccupazione ambientale del medium resti presente, anche se non tematizzata. Per esempio, è molto interessante in Cultura video il collegamento fatto en passant tra lo spazio domestico che comprende i dispositivi video (registratori, dischi, proiettori, pc) e lo studiolo rinascimentale indagato da Wolfgang Liebenwein, culla del collezionismo e di attività intellettuali solitarie.
La seconda parte del libro si dedica all’analisi dell’evoluzione del ruolo delle riviste. Se negli anni settanta, riviste come Fotografare (che ha chiuso da pochi mesi) si dedicavano al video in quanto parte di un panorama tecnologico nascente più ampio, negli ottanta riviste specializzate come Video Magazine e Video (nate nel 1981) si dedicano agli usi specifici e alla loro etica. Dal 1988 in poi, infine, l’interesse si sposta sulla cinefilia, il consumo domestico e la guida nella scelta degli hardware. Le riviste muoiono all’inizio degli anni novanta nel momento in cui il video è diventato più che autonomo, mostrando come la produttività discorsiva del dispositivo sia legata al suo carattere ibrido e transitorio e si esaurisca quando il video si stabilizza.
Riferimenti bibliografici
D. Cavallotti, Cultura video. Le riviste specializzate in Italia (1970-1995), Meltemi, Sesto San Giovanni (MI) 2018.
B. Latour, Cogitamus. Sei lettere sull’umanesimo scientifico, Il Mulino, Bologna 2013.
A. Mariani, G. Fidotta, a cura di, Archeologia dei media, Meltemi, Sesto San Giovanni (MI) 2018.
In homepage immagine tratta da C. Solarino, Il televisore. Questo sconosciuto terminale informativo, in Video Magazine, n. 2, ottobre 1981, p. 36.