Gli uomini sono costretti a sperimentare la femminilità a modo proprio dopo che tutte le donne del pianeta sono morte a causa di cosmetici avariati. Gli inquilini di un condominio esclusivo vengono infettati da parassiti afrodisiaci che ne scatenano i peggiori impulsi repressi. Una ragazza in fin di vita è sottoposta a un trattamento sperimentale che le salva miracolosamente la vita, instillandole però un insaziabile desiderio di consumare carne umana. Un ambizioso scienziato commette un grossolano errore durante l’esperimento più importante della sua vita, finendo così per mescolare il proprio DNA a quello di una banale mosca. Un giovane squalo del capitalismo attraversa la città a bordo della sua limousine per andarsi a tagliare i capelli, consapevole che il mondo è sull’orlo del collasso e che entro la fine della giornata sarà assassinato.

Quelle che abbiamo appena letto sono solo alcune delle numerosissime e iconiche trame dei film di un regista canadese che potrebbe avervi cambiato la vita, fatto uscire di corsa dalla sala cinematografica o mandato di traverso parte della cena. Con una boutade che puzza di caustico cinismo (perché la verità, si sa, si dice scherzando), Martin Scorsese lo ha definito «un tizio che sembra un ginecologo di Beverly Hills». La casa di distribuzione americana a cui era stato affidato uno dei suoi film (Crash) si è in un primo momento rifiutata di distribuire la pellicola negli Stati Uniti perché inorridita dalla sua apologia del macabro.

Alcuni fan e critici illuminati lo hanno battezzato il padre del body horror, di quel particolare sottogenere del cinema dell’orrore che non si concentra tanto su mostri e fantasmi, quanto sulle angosce legate alle viscere, alla carne e al sangue. Agli inconvenienti della moderna tecnologia e della sessualità. Le femministe lo accusano di perpetuare uno stereotipo femminile morboso, che salta senza soluzione di continuità dal vittimismo esasperato alla crudeltà sovrannaturale. Ha fatto incazzare i marxisti per lo spudorato individualismo, gli uomini di scienza per il suo fatalismo tecnologico, i produttori hollywoodiani per la totale mancanza di compiacenza nei confronti degli standard del cinema mainstream. Ma per carità, il nostro protagonista ha anche dei difetti, perché la perfezione non esiste.

Parliamo di David Cronenberg, il creatore di un universo bizzarro, perverso e polimorfo, che ci fa godere e tremare da ormai quasi mezzo secolo. Una personalità senza dubbio curiosa – si dirà vedendo i suoi film -, che tuttavia continua a essere talmente prolifica e presente nel nostro immaginario da costringerci a prendere atto della sua esistenza, volenti o nolenti.

Per quelli di voi che Cronenberg lo apprezzano, che ne sono incuriositi o che quanto meno lo tollerano, c’è una buona notizia: Wudz (casa editrice giovanissima ma che finora ci ha regalato solo chicche) ha da poco pubblicato Una storia di violenza (Wudz, 2024), una corposa raccolta di interviste rilasciate dal Maestro tra il 1983 e il 2015 che ripercorre i suoi esordi dietro la macchina da presa – Stereo, il dimenticato Crimes of the Future del 1970, Il demone sotto la pelle – spingendosi sino alla post-produzione di Maps to the Stars. Il primo pensiero di fronte a questo genere di libri-confessione, come è giusto che sia, sono gli aneddoti, che difatti non mancano. Come quando, durante le riprese di Spider, il Nostro chiese a Ralph Fiennes di riempire le pagine di diario che vediamo nel film inventando una scrittura cuneiforme tutta sua; o del periodo in cui, lavorando alla sceneggiatura di A History of Violence, trascorreva le notti a tracannare decine di DVD che, parole sue, «ti insegnano a uccidere» la gente (ivi, p. 337); o di quella volta sul set di eXistenZ in cui Jennifer Jason Leigh vomitava come un idrante a causa di una brutta influenza e lui disse: beh, «approfittiamone» (ivi, p. 269).

Ovvio, di libri aneddotici sugli artisti ce ne sono a bizzeffe. Viviamo immersi in una cultura industriale che immortala e uccide coi trend, i meme e le tendenze, no? Una sorta di sanguisuga felice che non vede l’ora di soddisfare il voyeurismo delle masse, siano esse composte di cinefili, fan occasionali o ignari consumatori dell’ultima ora. Seconda buona notizia, spero per voi: Una storia di violenza è assemblato in modo tale da offrire chiacchiericci e curiosità, sì, ma anche filosofia a palate, bordate politiche e fantasmi inespressi, e lo fa senza temere nemmeno per un attimo di apparire controverso. E per fortuna, visti i tempi.

A vedere lui (un borghese di origini ebraiche dai capelli grigi e spazzolati, gli occhi di ghiaccio e il portamento da vampiro) o i suoi film, non lo direste mai, ma Cronenberg è un tipo che ama parlare. Se la domanda lo stuzzica, si lancia in risposte talmente ampie da dare l’impressione che l’intervistatore non sia mai stato lì. Non perché muoia dalla voglia di esplicitare ogni minimo particolare dei propri film, ma perché, un po’ come il Max Renn di Videodrome, è un artigiano collegato carnalmente alla propria missione. Perché il cinema e il suo “discorso”, per usare un termine più vicino a Lacan che a Foucault, sono per lui un bisogno primario, la strategia che – fino ad ora – ha meglio rispecchiato il suo modo di venire a patti col mondo o, meglio ancora, con il fatto di resistere alla tentazione che in fondo tutto questo scalpitare per dire la propria sia stupido e inutile.

Non per nulla, e nonostante il passare del tempo, Cronenberg dice spesso che i suoi film utilizzano l’orrore come un pretesto per rappresentare cose che, altrimenti, nessun produttore o spettatore accetterebbe di vedere nella sua nuda forma. A History of Violence vuole mettere il pubblico faccia a faccia con le conseguenze reali della violenza, con il fatto che spesso tendiamo ad applaudire la giustizia privata, a giustificare le azioni dei vendicatori, ma poi non siamo in grado di tollerare gli esiti di simili gesti. Perché la violenza sarà catartica, talvolta tragica, ma mai irrilevante. Ancora: senza la mutazione (orecchie, capelli, pelle, palle che cadono) cosa sarebbe La mosca? Risposta: probabilmente un’opera drammatica in cui due eccentrici intellettuali si innamorano e, a seguito di una orribile e logorante malattia, uno dei due (Geena Davis) aiuta l’altro (Jeff Goldblum) a suicidarsi.

Un ultimo appunto. Cronenberg dice più e più volte che «l’horror non è frivolo» (ivi, p. 64). Parole sante, per quanto mi riguarda. Ma che significa? L’horror è di solito inquadrato in due modalità opposte. Da un lato, abbiamo il genere superficiale per eccellenza, la merce da intrattenimento che un tempo impazzava nei drive in e oggi continua a imperversare nei B-movie usa e getta, il bestiario delle bestie che non esistono, delle creature tarocche e degli effetti speciali da due soldi. Opere a volte grezze, mal recitate, montate a casaccio, molto spesso prive della sofisticatezza dello sci-fi e del thriller, sicuramente. Dall’altro, c’è l’horror come esperienza invasiva, come una specie di cavo carnoso che si collega in presa diretta al nostro intimo, ai timori primordiali e agli incubi che non osiamo raccontare ad alta voce. Ok, proposta indecente: e se queste due definizioni, anziché agli antipodi, fossero in realtà complementari, e cioè due diversi modi di rapportarci a una sola e medesima cosa? Con le sue estreme e a volte esagerate semplificazioni, l’horror non ci mostra forse che le nostre più inconfessabili paure sono tali proprio perché frivole?

A mettere a repentaglio il nostro senso di familiarità con ciò che ci circonda non sono creature orripilanti o la prospettiva di una catastrofe immane, quanto piuttosto i timori più banali, mondani eppure concreti: avete mai sognato di mettere mano all’interno del vostro corpo come se fosse una scatola (Videodrome), di perdere i denti come pelle morta (La mosca), di godere di un corpo che vi suscita piacere e repulsione allo stesso tempo (M. Butterfly) o di essere gli impotenti protagonisti di uno schianto mortale (Crash)?

Come ci dimostrano le paure più infantili che ci siano, e cioè le fobie, il nocciolo intimo dell’esperienza umana non fa differenza tra godimento e orrore, attrazione e avversione, e ciò che per la maggior parte delle persone (di tutti quegli altri che non sono “io”) appare insignificante, fatuo, persino vuoto, per noi può essere la quintessenza del tormento. Esiste qualcosa di egoistico e infantile che vibra in noi attraverso l’horror, e questo qualcosa sortisce il più efficace degli effetti proprio quando risuona con il nostro essere. Quando «la simbiosi» dell’io, e cioè il momento di massima coincidenza con sé stessi, non avviene a vantaggio dell’identità, ma produce «un senso di isolamento e di straniamento più profondo che mai» (ivi, p. 218). Questo, penso, è David Cronenberg.

David Cronenberg, Una storia di violenza, a cura di David Schwartz, traduzione di Pietro Del Vecchio, Wudz, Arezzo/Milano 2024.

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