Una questione privata

All’inizio del 1960, nella fase di ideazione di Una questione privata, Fenoglio aveva inviato a Giulio Questi, che aveva incontrato lo scrittore per chiedergli una sceneggiatura, un soggetto che riprendeva quella che sarebbe stata la prima delle tre stesure del romanzo, poi pubblicato postumo da Garzanti nel 1963 (Pedullà 2014). Ma non se ne fece nulla. Una questione privata avrebbe in ogni caso incontrato, più tardi, l’immagine audiovisiva: cinematografica, in un film girato nelle Langhe con pochi mezzi (Trentin, 1966), poi, due volte, televisiva (Cane, 1982 e Negrin, 1993).

Indicato da Calvino, nel 1964, come l’autentico punto d’approdo – letterario, morale, espressivo – del lavoro di un’intera generazione di scrittori passata attraverso l’esperienza della Seconda Guerra Mondiale e della Resistenza (“Il libro che la nostra generazione voleva fare, adesso c’è”, Calvino 1987, p. 24), quello di Fenoglio non soltanto è uno dei più straordinari, dei più grandi romanzi del ‘900 italiano, una delle più compiute rappresentazioni della lotta partigiana e insieme una vertiginosa meditazione sulla condizione umana, ma è anche un micidiale marchingegno narrativo, sigillato in una struttura circolare, sorretto da una prosa limpida almeno quanto implacabile che, per intensità, ritmo, puntualità non lascia possibilità di sosta al lettore e lo spinge, ogni volta, ad arrivare fino in fondo d’un fiato. E a cercare da qualche parte, sotto o dietro gli ultimi fogli stampati, nella quarta di copertina o altrove, dove sia possibile leggerne ancora, e in che modo esattamente, tutto ciò che c’è prima sia davvero finito.

Ci vogliono allora, per mettere in immagini un romanzo del genere – ma è ciò che occorre già sempre al tragitto di un capolavoro da un sistema espressivo a un altro – una buona dose di coraggio e spalle sufficientemente larghe. E, soprattutto, ci vuole uno sguardo, che significa la configurazione di un proprio universo, estetico e morale, e di un proprio riconoscibile stile.

Paolo e Vittorio Taviani, lo sappiamo, hanno tutte queste cose insieme. E infatti, questo loro Una questione privata, sceneggiato da entrambi ma, per problemi di salute di Vittorio, diretto dal solo Paolo, liberamente ispirato al romanzo dello scrittore di Alba, è un film intenso e rigoroso, tanto saldo nell’atteggiamento delle forme (filmare è sempre prendere posizione su ciò che si guarda e su come lo si mostra), quanto mosso e dinamico nell’articolazione narrativa. Meticoloso, meditatissimo e insieme imperfetto, non eguale in tutte le sue parti, non è un capolavoro come l’opera dalla quale deriva, ma il film leale e profondo di due grandi autori del nostro cinema che, muovendo incontro ai novant’anni, si sono fatti carico, con trasporto e passione (estetica e morale, appunto) di ragazzi, di un progetto da tempo sognato.

Il romanzo è, come noto, la storia di una incontrollabile, moltiplicata digressione: nel pieno della guerra civile, il partigiano “azzurro” Milton deve assolutamente sapere se il dubbio insinuatogli dalla custode della casa ormai abbandonata di Fulvia, la ragazza che ama – il dubbio relativo alla possibilità che tra la giovane e il migliore amico di lui, Giorgio, vi sia stata in passato una relazione amorosa – corrisponda al vero. Bisogna dunque cercare Giorgio, anch’egli partigiano, ma è stato appena catturato dai fascisti. E così bisogna cercare un fascista prigioniero da scambiare con lui ma non ce n’è da nessuna parte, dunque bisogna catturarne uno… Quando si pensa a Una questione privata non si può non richiamare la celebre descrizione di Calvino:

È costruito con la geometrica tensione d’un romanzo di follia amorosa e cavallereschi inseguimenti come l’Orlando furioso, e nello stesso tempo c’è la Resistenza proprio com’era, di dentro e di fuori, vera come mai era stata scritta, serbata per tanti anni limpidamente dalla memoria fedele, e con tutti i valori morali, tanto più forti quanto più impliciti, e la commozione, e la furia. Ed è un libro di paesaggi, ed è un libro di figure rapide e tutte vive, ed è un libro di parole precise e vere. Ed è un libro assurdo, misterioso, in cui ciò che si insegue, si insegue per inseguire altro, e quest’altro per inseguire altro ancora e non si arriva al vero perché .

E allora, anche nel film, tensione, inseguimenti, la cruda rappresentazione di una guerra atroce, il senso profondo e ultimo, tanto più forte in quanto lontano da ogni retorica, di una scelta. E anche il film è un film di paesaggi e di luci dissimili, attentamente distribuite nei blocchi temporali in cui si divarica: tagliente, grigia e opaca quella del presente, della nebbia, del fango, del pericolo sempre imminente; viva e satura di cromatismi accesi quella dei flashback, che richiamano il tempo di Fulvia e dell’innamoramento per lei.

Sappiamo che nei discorsi sul transito da un testo d’origine a uno d’approdo, la conta di ciò che il secondo ritiene o tralascia, conserva o cancella del primo non è questione così importante. Perché possa configurarsi come alcunché di produttivo, la trasposizione di un’opera da un sistema espressivo a un altro non ha da farsi che a partire dal confronto ragionato, consapevole, profondo, tra i due sistemi (tra le potenzialità e i limiti dell’uno e dell’altro) e per costituzione il lavoro che ne deriva non potrà compiersi che nei termini di un radicale ripensamento, di un’autentica riscrittura, di una trasfigurazione già sempre arbitraria e già sempre esibita. Si potrà allora osservare, più in profondità, come i Taviani rileggano Fenoglio attraverso minuziosi processi di spostamento, di sostituzione, di dilatazione. I personaggi si condensano e si sovrappongono, i luoghi e le situazioni talvolta si trasformano, i nomi cambiano, molto spesso. E l’importanza di Over the Rainbow nel film appare giustamente sovraesposta.

L’impianto, la struttura fabulatoria, le scansioni portanti della vicenda sono tutte presenti e riconoscibili e tuttavia è come se i Taviani propriamente rimontassero, ecco la parola, i materiali del romanzo in una sorta di lucidissimo, calibrato stato di trance compositiva, immediatamente capace di comporre lo spirito e la forza che lo muovono e lo sostanziano. I materiali del romanzo, dicevo, ma anche gli umori, i rilievi, i riverberi del grande, stratificato laboratorio fenogliano che insistono su di esso o vi gravitano attorno, compreso il soggetto inviato a Questi dallo scrittore in cui si trovano ad esempio gli elementi, presenti nel film, delle sigarette confezionate da Fulvia con petali di fiori e del pianto di Milton per aver dovuto uccidere il fascista destinato allo scambio (Fenoglio 1978, pp. 2244, 2248).

Questo mosso lavoro di riscrittura accompagna il dispiegarsi di uno sguardo asciutto e marcato, che non concede nulla alle logiche dello spettacolo, che ha un rispetto profondo per il materiale che va elaborando e che in questo rispetto trova il proprio principio di determinazione. Ne deriva un film che vorrei ancora definire concentrato e severo, serio e grave come i temi che lo informano in ogni sua articolazione, anche quando meno riuscita. E poco importa se qualche inflessione dialettale non appare sempre corretta, se qualcuno tra gli interpreti lascia talora intravedere barlumi televisivi, se, almeno in un passaggio, la nebbia deliberatamente digitale che fluttua dentro le immagini appare davvero troppo artificiosa. Ma Marinelli, nel ruolo di Milton, dà una prova notevolissima, ossessionata, scomposta e fragile come il suo personaggio, scattosa e contorta, sempre opportunamente dolente. E Valentina Bellè è una Fulvia perfetta, ambigua, misteriosa, imprendibile. Tra le aggiunte che i Taviani apportano al testo d’origine, vanno segnalati due brani memorabili: la bimba contadina che si alza viva tra i suoi che i fascisti hanno sterminato, beve avidamente e torna distesa; un abbraccio fulmineo, straziante e muto, tra Milton ridisceso in città e i suoi genitori (nel romanzo egli è orfano di padre).

E da ultimo, il finale, che coincide col gesto compositivo più radicale del film. La celebre chiusa, potentemente ambigua, del romanzo, passa qui attraverso un’operazione di riscrittura che, per contro, non lascia dubbi allo spettatore e che appare forte ed emozionante insieme. Come uno sguardo degno di questo nome.

Riferimenti bibliografici
I. Calvino, Prefazione (1964), in Id., Il sentiero dei nidi di ragno, Garzanti, Milano 1987.
L. Cuccu, Il cinema di Paolo e Vittorio Taviani, Gremese, Roma 2001.
B. Fenoglio, Opere, edizione critica diretta da M. Corti, vol. I, iii, Einaudi, Torino 1978.
G. Pedullà, Alla ricerca del romanzo, in B. Fenoglio, Una questione privata, Einaudi, Torino 2014.
V. Zagarrio, a cura di, Utopisti, esagerati. Il cinema di Paolo e Vittorio Taviani, Marsilio, Venezia 2004.

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