Tre giorni di immersione completa nelle immagini scomode, travolgenti, a volte liriche, a volte dissacranti del cinema sperimentale e d’artista italiano negli anni della contestazione. Questo è stata Quasi un ’68 / Almost ’68rassegna organizzata dal 30 novembre al 3 dicembre 2018 a Bologna dalla nuova sezione dell’Archivio Home Movies dedicata all’Art and Experimental Film e curata da Jennifer Malvezzi, Mirco Santi e Paolo Simoni. Del programma, ampio e articolato in proiezioni esclusivamente in pellicola, incontri, installazioni, è impossibile dar conto interamente. Dislocata su più sedi, coinvolgendo storiche gallerie d’arte della città, il MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna, spazi espositivi indipendenti e la stessa sede di Home Movies, la rassegna ha unito, sotto la comune grammatica della sperimentazione, la produzione di filmmaker indipendenti, come Massimo Bacigalupo, Tonino De Bernardi, Gianni Castagnoli, con quella di artisti come Valentina Berardinone, Fernando De Filippi, Andrea Granchi, Arnaldo Pomodoro, Franco Vaccari.

Una festa della sperimentazione e della rivolta, verrebbe da dire, e forse qualcosa di più.  Nella serata di apertura, mentre mi lasciavo trascinare, tra il fascio del proiettore e il suono delle bobine che scorrevano, dalle immagini ancora così dirompenti di Quasi una tangente di Massimo Bacigalupo (1966), presentato in una nuova edizione in 16mm elaborata dai curatori assieme allo stesso autore, risuonavano nella mia testa le parole pronunciate da Guido Lombardi, altro grande esponente della stagione sperimentale italiana, e riportate dallo stesso Bacigalupo nel numero di “Bianco e Nero” dedicato al film sperimentale da lui curato:«La pratica sulla pellicola è anche la consapevolezza della sua materialità, nella quale si intravvede un contatto più fisico, più stretto, si manifesta un’euforia dello strumento, una libertà di trasformazione dal magico al sociale e viceversa, si provoca l’esorcismo o la rivendicazione di nuove immagini […]: una nuova esperienza del cinema» (Bacigalupo 1974, p. 5).

Per noi, spettatori e spettatrici abituati alla smaterializzazione dell’immagine digitale, affondare nel “peso” della pellicola ha significato assumerci il rischio di una visione che abita l’obsolescenza del medium per ritrovarne tutta l’attualità. Non dunque per (ri)vivere con sguardo nostalgico il passato materico dell’immagine in movimento, ma per aprirci alle possibilità che questo anacronismo, questo cortocircuito tra i tempi della storia, ci pone. Solo un archivio forse poteva offrirci questa prospettiva. D’altra parte risuonano profetiche, ora più che mai, le parole che Jacques Derrida pronunciò ormai quasi 25 anni fa: «Oggi niente è meno certo, niente meno chiaro della parola “archivio”» (Derrida 2005, p. 110).

L’archivio abita sempre di più quello spazio ibrido tra conservazione e curatela dell’oggetto filmico, che nel film sperimentale e d’artista appare come una questione essenziale. La sua natura storicamente ambigua tra produzione amatoriale e gesto artistico ne rende infatti particolarmente difficile la collocazione, non solo come oggetto di studio, ma anche, conseguentemente, come opera da esporre e da fruire. Non è allora un caso che proprio dall’esperienza di un archivio che nasce per conservare e far rivivere il film amatoriale sia emersa negli anni l’esigenza e il desiderio di occuparsi anche dei materiali filmici sperimentali e d’artista.

Realizzati spesso all’intreccio tra memoria privata e opera, con pellicole piccolo formato e budget ridottissimi che ne riducevano a volte l’esistenza ad un’unica copia, visti nei cineclub o persino tra le quattro mura domestiche o dello studio d’artista, in gallerie d’arte o nei festival, questi film portano inscritti come un destino identitario i vuoti della mancanza, dell’assenza. A volte non finiti, a volte dimenticati, a volte interamente o parzialmente perduti. Che cosa fare, per esempio, delle 5 bobine che compongono un film come Il quadrato di Tonino De Bernardi (1971), un diary film o più semplicemente un home movie nella sua forma più classica, fatta di immagini e paesaggi di vita familiare, di cui l’autore non ricorda più l’ordine di visione? La scelta dei curatori, discussa con De Bernardi, di presentarlo in versione installativa, scomponendo e allo stesso tempo reiterando in modo ossessivo la visione, raccoglie il vuoto della memoria e lo trasforma nella possibilità di un nuovo gesto artistico, di una nuova opera.

Che cosa fare, ancora, di appunti filmici i cui autori non sono certi, come le immagini di Arnaldo Pomodoro a Berkeley riscoperte tra i materiali d’archivio dell’artista? In che modo convivono con Shaping Negation / La forma negativa, realizzato dallo stesso Pomodoro con Francesco Leonetti e Ugo Mulas (1970), un film d’artista a tutti gli effetti, e che tuttavia era stato realizzato come una documentazione della sua ricerca da inviare alle gallerie americane? Non un’opera da esporre dunque, ma una sorta di paratesto in forma d’arte, da far circolare assieme al proprio lavoro per espanderne il significato, per aprirlo a nuove visioni. Vederle entrambe ha significato accettare di porci al crocevia di una rete di interpretazioni che spesso il film realizzato nel contesto dell’arte richiede.

Il rapporto tra artisti e sperimentazione filmica è infatti costellato da aperture e strettoie, passioni e frizioni. In quel decennio di stravolgimenti dove l’oggettualità dell’opera è messa in scacco dalla volontà di sottrarla al mercato ma anche dal tentativo di realizzare quella grande utopia di dissolvimento dell’arte nel flusso più ampio della vita, molti artisti imbracciano le cineprese piccolo formato e il cinema diventa, per loro, un territorio dove la pratica artistica si scioglie e si ricodifica con la grammatica dell’immagine in movimento. E tuttavia è presto dimenticata, in quel “ritorno all’ordine” degli anni ’80, dove molti di questi film sono finiti in bauli abbandonati in qualche soffitta, rimossi, percepiti dagli stessi autori come esperimenti ai margini della loro opera. Poterli rivedere o, molto più spesso, vedere per la prima volta, significa assistere quasi a un ritorno del rimosso. È questo il caso dei film di Valentina Berardinone, noti per una cospicua documentazione nelle fonti dell’epoca e tuttavia mai più proiettati.

Viste qui in copie d’archivio scelte assieme all’artista, queste opere ci illuminano su una produzione che traduce in linguaggio filmico l’incontro tra ricerche post spazialiste – la superficie prende spesso il sopravvento sull’oggetto nelle riprese dell’autrice – e il vocabolario dell’esplosione femminista, dove il gesto eccedente, debordante, è ricerca di una soggettività in divenire. Rivoluzione della relazione con il mondo, che negli anni ’70 porta alle estreme conseguenze l’utopia di liberare l’individuo da quella «meccanizzazione delle anime» di cui la Beat Generation parlava già vent’anni prima e che, sebbene in linguaggi e poetiche differenti, emerge nella ricerca militante di Fernando De Filippi e Andrea Granchi.

Così appaiono anche le straordinarie immagini de La nott’e’l giorno di Gianni Castagnoli (1976), viste in questa rassegna in una nuova edizione 16mm frutto di un lungo lavoro di studio e di restauro: un film “sulla strada”, che rovescia il linguaggio rassicurante dell’home movie di viaggio catapultandoci in un’esistenza messa continuamente a rischio – tra «utopie e distruzioni», come già notano i curatori nel testo introduttivo al programma – dall’uso di droghe, certamente, ma anche dalla scelta di esplorare quello spazio di confine, come quello tra la notte e il giorno, appunto, che sfugge alla rappresentazione e allo stesso tempo, come in un procedimento alchemico, scova l’immagine sepolta, rivela l’invisibile.

Anche questo sono stati gli anni della contestazione e della rivolta, gli anni di una sperimentazione artistica e politica dove la produzione filmica indipendente ha spesso tentato di svelare, più che registrare, il visibile, scavando nell’underground, o meglio Nei sotterranei, per citare il titolo di un film di Franco Vaccari (1966-67) visto, anch’esso in versione restaurata, in questa rassegna, facendo così emergere quella «nuova esperienza del cinema» che ancora ci interroga, ancora ci interpella.

Riferimenti bibliografici
M. Bacigalupo, a cura di, Il film sperimentale, “Bianco e Nero”, n. 5-8 (1974).
A. Bravo, A colpi di cuore. Storie del Sessantotto, Laterza, Roma 2008.
J. Derrida, Mal d’archivio: un’impressione freudiana, Filema, Napoli 2005.
P. Simoni, Lo spazio incerto. Curare gli archivi del cinema sperimentale e d’artista, in “Cinergie – il cinema e le arti”, n. 14 (2018).

*In copertina Massimo Bacigalupo, Quasi una tangente (1966, 16mm da originale 8mm, 33’). Courtesy Archivio Home Movies e l’artista.

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