Una delle “regole” della scrittura narrativa vuole che più forte è l’antagonista più potente è l’eroe. Di più, l’antagonista è proprio colui che contrastando l’eroe lo rende tale. L’etimologia del termine (dal greco ἀνταγωνιστής, composto di ἀντί “contro” e ἀγών “lotta”) individua in esso sia l’avversario in una lotta sia un personaggio in conflitto con il protagonista in una narrazione. La boxe si configura allora come lo sport in cui la dimensione drammatica, che vede il conflitto tra due individui, acquista in un certo senso una valenza meta-narrativa. È come se ogni narrazione sulla boxe (che sia letteraria o audiovisiva) metta direttamente in gioco i principi alla base della narrazione stessa.
George Foreman, scomparso il 21 marzo scorso, è stato di questa “arte narrativa” forse la perfetta incarnazione proprio dell’archetipo dell’antagonista. Nei tanti ricordi che nei giorni a seguire la sua morte sono stati diffusi, inaspettatamente in un Paese come il nostro in cui la boxe non è ormai da tempo uno degli sport più seguiti, la sua figura è stata inevitabilmente legata al nome di Muhammad Alì e a quell’evento epico, il loro incontro a Kinshasa il 30 ottobre del 1974, la famosa “Rumble in the Jungle”, che lo ha reso l’antagonista per eccellenza. E questo nonostante l’altrettanto epica impresa che vent’anni dopo lo ha portato a riconquistare il titolo dei pesi massimi all’età di 45 anni, dopo dieci di inattività, contro un avversario di diciotto anni più giovane, e un percorso di vita che lo ha visto passare da pugile a predicatore e infine a imprenditore.
Questa dimensione narrativa della boxe può spiegare come sia lo sport che nella storia ha avuto più e importanti rappresentazioni cinematografiche: dai noir anni quaranta (Anima e corpo, Stasera ho vinto anch’io) a film celebri quali Rocky, Toro scatenato, Alì, per fermarci ad alcuni tra gli esempi più noti. D’altra parte, per restare al cinema, la metafora del pugno legata allo scontro tra le immagini la troviamo già in Ejzenštejn, che conia appunto l’espressione di “cine-pugno”: «Penetrare nei crani con un cine-pugno, penetrarvi fino alla vittoria finale». Ejzenštejn che nel 1921 metteva in scena al teatro Proletkul’t di Mosca Il messicano da Jack London (appassionato di boxe e boxeur dilettante a sua volta), storia di un giovane pugile esule negli Stati Uniti che si procura incontri per finanziare la Rivoluzione messicana contro Porfirio Diaz. Una messa in scena che prevedeva, nell’idea iniziale, l’allestimento sul palcoscenico d’un vero e proprio ring sul quale gli attori si scambiavano pugni quasi-veri, mimando un incontro di boxe.
Il ring diventa allora il palcoscenico-set dove si celebra una cerimonia “mitico-primitiva” (un fascino di questo sport è certo una persistenza dell’antico nel moderno, che ha trovato in Alì il suo emblema) rigidamente scandita da un tempo altro («La boxe è calata in uno spazio sacro che esisteva prima della civiltà», Oates 2023, p. 26). Una “cerimonia” che apparentemente sembra avere più affinità con la performance coreutica e musicale ma che si presenta al contrario, aristotelicamente, come «azione seria e compiuta in sé stessa, con una certa estensione». Ce lo ricorda bene Joyce Carol Oates in uno dei libri più belli dedicati a questo sport, Sulla boxe. Dove continua:
Se un incontro di boxe è una storia, è sempre una storia dal finale incerto, in cui può succedere di tutto. E in una manciata di secondi. Di frazioni di secondi! […] Anche se un incontro di boxe è una storia senza parole, questo non significa che non abbia un testo o un linguaggio, che sia in qualche misura “bruto”, “primitivo”, “inarticolato”, ma soltanto che il testo è improvvisato nello svolgimento; il linguaggio è un dialogo sofisticatissimo tra i pugili (si potrebbe dire sia neurologico sia psicologico, fatto di riflessi di frazioni di secondo), i quali reagiscono concordi al misterioso desiderio del pubblico, che è sempre quello di un incontro di buon livello che gli permetta di rimuovere, dimenticare, tutta la crudezza dell’allestimento scenico: ring, luci, corde, il tappeto macchiato, gli stessi spettatori con lo sguardo fisso. (Proprio come in teatro o in chiesa, dove l’allestimento scenico dovrebbe essere rimosso dall’azione trascendentale) (ivi, p. 19)
Viene qui in mente la prima inquadratura di Rocky, con l’icona del Cristo redentore che sovrasta il ring, dove facciamo la conoscenza del protagonista, in uno spazio che sembra più una chiesa che un palazzetto sportivo.
Ma torniamo all’incontro nello Zaire. Perché questo è forse la rappresentazione perfetta del carattere esemplare di “storia” che ogni incontro di boxe porta con sé, con la sua impeccabile scansione in punti di svolta, punti di morte, resistenza, illuminazione, rinascita (lo straordinario quinto round in cui Alì, che fino a un attimo prima sembrava ormai finito, alle corde, rinasce, riguadagna il centro del ring e colpisce ripetutamente Foreman fino al ko alla fine del ottavo round).
Scrive Norman Mailer in The Fight, altro grande volume, tra letteratura e reportage, dedicato a questo sport e all’incontro di Kinshasa in particolare, che Alì e Foreman sono «due differenti incarnazioni dell’ispirazione divina». Se
Alì ispirava amore (e relativamente poco rispetto per la sua forza) era [perché] dalla sua personalità si evinceva che non avrebbe fatto del male a un uomo comune. […] Invece Foreman era minaccioso. Il tipo capace di perpetrare una carneficina da incubo. […] Foreman non era mai stato sconfitto. La notte in cui conquistò il titolo aveva già accumulato nientemeno che trentacinque knockout, e i suoi incontri mediamente finivano al terzo round. […] un genio che impiegava i metodi della catatonia (silenzio, concentrazione e immobilità). Poiché Alì era un genio di tipo diverso, era lecito aspettarsi un incontro eccezionale (Mailer 2022, pp. 56-57).
Nell’opera di intimidazione psicologica messa in atto da Alì durante tutta la preparazione, Foreman diventa il rappresentante dell’America colonialista (quando conquista la medaglia d’oro alle Olimpiadi del 1968 il pugile texano sventola con orgoglio la bandiera americana). Di più, il giovane Foreman (al momento dell’incontro è più giovane di sette anni rispetto ad Alì), malgrado tutte le sue grandissime doti (“L’uomo più forte mai salito su un ring professionistico”, come è stato definito) come in una favola di buoni e cattivi, è decisamente il cattivo. È l’avversario che siamo portati a disprezzare perché non è il nostro eroe.
Ma come ogni narrazione l’eroe e l’antagonista sono in fondo l’uno l’ombra dell’altro. E infatti “boxare con l’ombra” si dice quando un pugile si allena trovandosi di fronte, come avversario, non altri che se stesso, la propria ombra o la propria immagine speculare.
Il pugile affronta un avversario che è una distorsione onirica di sé stesso, nel senso che i suoi punti deboli, le sue probabilità di fallire e di farsi seriamente male, i suoi errori di calcolo, tutto può essere interpretato come punti forti dell’Altro; i parametri della sua realtà personale non sono altro che illimitate affermazioni dell’io dell’Altro. È un sogno oppure un incubo: i miei punti forti non sono completamente miei, ma sono i punti deboli del mio avversario, così come il mio insuccesso non è completamente mio, ma è il trionfo del mio avversario. Lui è il mio io-ombra, non la mia (semplice) ombra (Oates 2023, p. 21)
Ma in fondo cos’è questa dicotomia se non quella tra vita e morte. Poiché poi in definitiva ciò che è in gioco qui non è altro che quello in gioco in ogni storia e di cui la vicenda di Foreman, e Alì, ne è il simbolo: la vita e la morte. Perché la boxe non è altro che «l’imitazione stilizzata di una lotta per la vita o per la morte» (ivi, p. 147).
Riferimenti bibliografici
A. Cappabianca, Boxare con l’ombra. Cinema e pugilato, Le Mani, Recco (Ge) 2004.
J. Carol Oates, Sulla boxe, 66thand2nd, Roma 2023.
N. Mailer, The Fight, La nave di Teseo, Milano 2022.
George Foreman, Marshall, 10 gennaio 1949 – Houston, 21 marzo 2025.