Mentre una stampa sempre più impreparata grida all’incredibile novità – quella per cui Steven Soderbergh ha realizzato un film con l’iPhone 7 – i più saggi ricordano che di opere girate con il telefono ce ne sono da ben più di dieci anni. Un tempo lo si definiva “videofonino” e sollecitava le analisi teoriche di non pochi studiosi, proprio perché sembrava un mutamento di paradigma storico, insieme alle altre novità digitali che investivano e travolgevano le pratiche di realizzazione del film. Oggi sembra che a colpire gli esperti sia principalmente la mutazione delle forme di consumo, e infatti Unsane (2018) tecnicamente non inventa nulla di nuovo. Così come, per rimanere a Soderbergh, una serie televisiva come Mosaic non possiede nell’interattività il suo principale discorso.
Al di là dei facili e improvvidi entusiasmi dei media, infatti, Soderbergh sembra sperimentare novità di dieci anni fa per metterle a prova con un mutato contesto discorsivo e investire frontalmente – come ha sempre fatto, del resto – lo statuto delle immagini e la natura del mezzo cinematografico. Nel suo noir (di questo si tratta, fuor di dubbio), il regista americano lavora intorno a un personaggio femminile liminare e allucinato e intorno a una deformazione strutturale macroscopica, mettendo a disagio sia lo spettatore scafato e postmoderno che gode dell’esperimento, sia l’audience – diciamo così – generalista che si fa trascinare dalla storia e si identifica nella vittima.
Versione volontariamente triviale e aggiornata di Angoscia (1944) di Cukor (con una qualche relazione non impossibile da sostenere con Inland Empire di David Lynch, anch’egli responsabile di indimenticabili neo-noir), Unsane sembra essere l’ennesima operazione paradossale di Soderbergh. Più offre la falsa pista del film a basso costo e a bassa fedeltà (vedi anche Bubble nel 2006) più sta saggiando la tenuta dell’immaginario cinematografico; più offre l’opzione dell’opera minore, più sta alzando la posta e le ambizioni.
Torniamo a dieci anni fa. Nelle riflessioni dell’epoca, girare un film con il telefonino (“le film de poche”) stimolava alcune strade privilegiate: un nuovo capitolo dei tanti snellimenti e alleggerimenti della macchina tecnica cui la storia del cinema ha assistito (una nuova “caméra-stylo”, insomma); nuove possibilità di realizzazione personale di film al di fuori dell’industria, a stretto giro di anni dopo l’avvento delle videocamere che avevano promesso qualcosa di simile; riflessioni sulla qualità e definizione dell’immagine “sporca” come forma estetica contemporanea (subito raccolta da artisti come Pippo Delbono); e così via.
Che cosa è rimasto di quelle domande, di quella sensazione che il “videofonino” avrebbe potuto modificare dal profondo le nostre abitudini percettive? La risposta più lungimirante si nasconde probabilmente in un altro testo non recentissimo, Immagini-corpo di Torben Grodal. Qui Grodal, pur interessato come è noto alla questione corporea e al rapporto tra mezzo cinematografico e scienze naturali, si occupa anche della percezione di certe immagini da parte dei destinatari, e in particolare di quelle dotate di realismo. Egli ricorda che “l’imperfezione del realismo”, anche e soprattutto quella generata da immagini poco nitide e semi-documentarie, sembra rimediare alla carenza di realismo percettivo dei mezzi audiovisivi tradizionali a cominciare dal cinema.
Ma tutto questo non avrebbe senso se non si intrecciasse alle abitudini del soggetto, non soltanto perché ciò che trasmette impressione (di imperfezione) di realismo non è lo stesso per tutti, ma anche perché il soggetto in queste immagini trova enfatizzato un altro soggetto (enunciativo) che sta esprimendosi attraverso mezzi domestici o comunque non provenienti dall’apparato industriale. Grodal si inoltra poi in una densa riflessione sul concetto di realismo e sui prodotti che lo simulano, ma quello che a noi preme qui trattenere è che Unsane è un film di genere (quelli che più di tutti chiedono di rinunciare alla percezione di realismo fallibile, esclusi horror e erotismo) che implica la presenza di un soggetto ingombrante, l’operatore (e regista), e su questo reinventa abitudini percettive hollywoodiane.
Come se postulasse la possibilità stessa di fare cinema con l’iPhone sempre – e non solo questa volta – in un nuovo sistema di generi e di codici iconografici, Soderbergh fa sentire l’impressione di imperfezione fin dall’inizio, cercando poi di occultarla via via attraverso la forza della narrazione e le potenzialità identificative del personaggio principale. In questo modo, innesca una tensione continua tra le modalità di realizzazione e di rappresentazione (quelle enfatizzate dai media) e le modalità di racconto, persino arrivando a chiedere alla ben nota protagonista, l’attrice Claire Foy, di offrire una recitazione noir anni quaranta, quindi una recitazione da studios e non da indie-film all’americana.
Unsane diventa ai nostri occhi un analysis film, cioè uno di quei titoli che – come Redacted (2007) di Brian De Palma o Timecode (2000) di Mike Figgis (già quasi archeologia dei media) – si prestano alla speculazione accademica, grazie al fatto che processano l’idea stessa di cinema. Tuttavia, a differenza degli altri (altrettanto marginali nel mercato distributivo), Soderbergh sembra il più convinto delle potenzialità espressive e persino ricreative di un cinema digitale di genere.
Riferimenti bibliografici
M. Ambrosini, G. Maina, E. Marcheschi, a cura di, I film in tasca. Videofonino, cinema e televisione, Felici Editore, Pisa 2009.
T. Grodal, Immagini-corpo. Cinema, natura, emozioni, Dabasis, Parma 2014.