Da un lato, ogni festival tende ad avere i suoi habitués, i suoi sodalizi di lunga data con cineasti che si rinnovano di edizione in edizione. Dall’altro, il regista francese Pierre Creton coltiva da sempre un’attenta fedeltà a luoghi e relazioni che prende la forma dell’abitudine e dell’abitare: ne è testimone tutto il suo cinema (o quasi) sviluppatosi nella Normandia natale. A tal proposito ad una proiezione di alcuni mesi fa si definiva tra il serio ed il faceto “un grand sedentaire” (un gran sedentario), lasciandoci pensare a come la sedentarietà si faccia virtù tra i nomadismi sfrenati della contemporaneità. Da diversi anni, tra i rari viaggi di Creton bisogna annoverare il tragitto estivo a Marsiglia dove è solito svelare le sue creazioni settentrionali. E così al Festival Internazionale di Marsiglia (FID) di quest’anno (9-15 luglio) si è trovato a presentare l’ultimo lungometraggio, Le bel été, piuttosto atteso dopo la scoperta del singolare Va, Toto! nel 2017.
Con questo suo film precedente, Le bel été potrebbe quasi costituire un dittico. Tra rêverie finzionale e documentario, in Va, toto! le storie intime e favolose di alcune persone vicine a Creton nel Pays de Caux si dipanavano a partire dall’irruzione della presenza straniera degli animali (un piccolo cinghiale, un banda di gatti, le scimmie indiane). Con una delicatezza allusiva, quest’opera coniugava nella sua trama minute accoglienze di alterità, inaspettati nuclei famigliari e lo scioglimento di traumi passati. Nell’autoctonia campagnola di Va, Toto! – che rispecchiava pienamente l’indole situata di Creton – ora finiscono per intervenire i grandi spostamenti e rimescolamenti che innervano la nostra epoca globale, nello specifico quelli umani delle migrazioni. Un rigagnolo del grande moto migrante giunge all’ospite che non si sposta, che fa dimora e può attendere.
Ed ecco che i temi ricamati in filigrana nella scorsa creazione riemergono con una connotazione politica più esplicita in Le bel été, quando a Vattetot-sur-Mer arrivano alcuni rifugiati minorenni attraverso una rete di sostegno associativa e vengono temporaneamente adottati dal regista stesso e dal compagno Vincent. Di questo evento Le bel été è il frutto cinematografico che matura in un’entroterra domestico distante dalle mareggiate dell’attualità geopolitica, lontano dalle frontiere e dalle rotte ben note. Qui, le febbri allarmiste e guerriere che montano all’avvicinarsi del confine sono rinfrescate nella generosità ordinaria di un’incontro umano nel quieto settentrione normanno.
In un’atmosfera vacanziera e trasognata, si ripercorrono le vicende quotidiane di una piccola e variopinta comunità riunita per l’estate in questa campagna al limitare delle falesie marittime. Creton non appare sullo schermo, come talvolta fa, e si limita un po’ discosto ad accompagnare alla messa in scena gli amici vecchi e nuovi che compongono tale famiglia estesa e sui generis. Li osserva, li raccoglie e li guida nel paesaggio intimo e naturale della sua Normandia: quella che non cessa di rielaborare cinematograficamente, quella che di recente il corto En attendant le bel été (Bonamy e Yon, 2019) riassumeva con delicatezza.
Il dialogo accorto tra una matrice reale e il piacere di una scrittura letteraria – altro elemento permanente dell’universo di Creton – si imbastisce anche in questo suo ultimo lungometraggio. Anche in Le bel été, lo strumento letterario inventa delle voci (narrative, introspettive) che tracciano dall’esterno nuovi strati e altri vissuti nel terreno della realtà. Voci come intercessioni che tessono storie e speculazioni tra il mondo e lo spazio soggettivo. E laddove finisce la parola, inizia invece il lavorio di uno sguardo estremamente sensibile ai corpi e ai gesti magnetizzati da un erotismo (discreto) che richiama e rivaleggia con le visioni del cinema di Claire Denis.
La passione letteraria del cineasta Creton si tradisce inoltre nel dettaglio significativo del titolo dove aleggia l’ombra di Cesare Pavese: La bella estate (1949). Non si tratta di una coincidenza casuale, ma di un parallelo rivendicato con uno scrittore che il regista francese stima particolarmente. La campagna, la maturità imminente, il tempo estivo: i motivi riecheggiano numerosi tra il film e la narrativa. Eppure in Pavese il mondo della campagna pare spesso opporsi in un modo irreconciliabile a quello storico, rischiando di scivolare nell’origine mitica oppure nell’esilio nostalgico. Una cappa di malinconia ammanta le Langhe di Pavese, mentre la Normandia de Le bel été diventa il luogo di una congiunzione felice e pacata tra uno spazio campagnolo ritirato e l’attualità storica: Creton prende umilmente parte alla Resistenza d’oggi.
A tal proposito, in questo stesso territorio normanno risiedono e operano la coppia Nicolas Klotz e Elisabeth Perceval, autori del migliore film sulla Jungle di Calais uscito oltralpe, L’heroïque lande. La frontière brûle (2017). Radicato nel suo Pays de Caux, Creton non dimentica il confine distante e gli fa spazio nel suo film a partire dalle sequenze iniziali in cui Calais si manifesta attraverso un piano girato da Klotz (che farà anche una sorta di cameo nel finale). Un’alleanza di complementarietà è così sancita tra le due iniziative cinematografiche e, nel contempo, tra il fronte e le retrovie dell’esperienza migratoria. Se ne L’heroïque lande Klotz e Perceval ricevevano ospitalità tra le case della bidonville di Calais, ne Le bel été è il regista che accoglie nella propria dimora gli amici migranti. D’avventure d’amicizia si tratta, in entrambi i casi.
L’estate normanna di Creton, svelataci nel luglio mediterraneo di Marsiglia, si fa contrappunto e sollievo di quell’altra estate più isterica e tragicamente farsesca (per non dire assassina) che stiamo vivendo su altri schermi: l’estate lampedusana della Sea Watch, ad esempio, inscenata dal nostro paranoico ministero dell’interno con la tacita complicità europea. Alla rabbiosa concentrazione mediatica sulle frontiere meridionali Le bel été risponde decentrando lo sguardo verso altre contrade più discrete e non meno cruciali dove si elaborano esperienze d’accoglienza.
Il film costituisce, sotto questo punto di vista, un’eccezione in quel settore assai produttivo della creazione documentaria contemporanea dedicato al fenomeno e ai soggetti delle migrazioni. Di frequente, le situazioni drammatiche come quella del confine, dello sbarco o della clandestinità sembrano dominare quest’ambito cinematografico: da Those Who Jump (Sidibé, Siebert, Wagner) a Des spectres hantent l’Europe (Kourkouta, Giannari), passando per Fuocommare (Rosi), tutti film eccellenti usciti nel 2016. Abbiamo bisogno, tuttavia, che il cinema (del reale) ci racconti anche storie di accoglienza e famigliarità oltre il perimetro rosso dello stato di emergenza. Per credere ancora meno alla retorica che tracima nei discorsi mediatici a suon di slogan sui social network. Per neutralizzare la soglia esclusiva tra nude vite e forme di cittadinanza (per dirlo con Agamben) che innerva sfrontatamente la nostra contemporaneità politica.
Ci auguriamo che, dopo Marsiglia, il film di Creton (che uscirà nelle sale francesi a novembre 2019) possa proseguire il suo cammino verso sud e varcare la frontiera di Ventimiglia in vista di una distribuzione italiana, non solo per permettere a pubblico e critica di scoprire il lavoro di questo importante regista. Ma anche per avere un contro-canto in immagini alle politiche autoritarie che chiudono i centri di accoglienza e criminalizzano le esperienze spontanee di ospitalità in nome di una cieca intolleranza che solo sa innalzare muri e barriere di panico. Le bel été è un’ipotesi d’accoglienza e d’incontro (citoyenne, non istituzionale) che si inventa cinematograficamente, ben lontano dall’esperienza ordinaria del confine e del confino.
Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Homo Sacer. Edizione integrale, Quodlibet, Macerata 2018.
P. Creton, Habiter Cultiver Filmer. Conversation avec Cyril Neyrat, Les presses du réel, Digione 2010.
Y. Haenel, «Le lieu de l’amitié (à propos de deux films de Pierre Creton)», in “Revue Indipendencia”.