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Leonardo Di Caprio in The Wolf of Wall Street (Scorsese, 2013).

Nel suo ultimo libro Il rovescio della libertà. Tramonto del neoliberalismo e disagio della civiltà (Quodlibet, 2017), Massimo de Carolis si fa carico di un compito a dir poco arduo: proporre una rappresentazione perspicua, sia antropologica che etico-politica, del mondo contemporaneo. Il metodo è da agente infiltrato. De Carolis lavora sotto copertura in un mondo criminale (formazione permanente, flessibilità lavorativa, mitologia del sapiens come animale imprenditore) e cerca di scoprirne la logica dall’interno, al fine di contribuire al suo superamento. L’espressione «neoliberalismo», termine ben in evidenza sin dal titolo, vuole indicare un paradigma teorico e antropologico prima ancora di una concreta azione economico-politica. Il libro inquadra con grande precisione sfumature e tensioni interne a un approccio egemone negli ultimi trent’anni che fa del mercato la forma principe “della prassi umana in generale” (p. 52). È una storia segnata da una cesura profonda. Negli anni Trenta, quello di Hayek, Von Mises o Rüstow è un gruppo di intellettuali frantumato e del tutto minoritario. Solo dopo cinquant’anni di latenza, nei quali l’economia dello Stato sociale sembrava aver avuto la meglio, i teorici del neoliberalismo trovano fortuna quasi postuma nella parte conclusiva del XX secolo, vale a dire “verso la fine degli anni Settanta” (p. 15). Secondo De Carolis, ciò avviene per una motivazione più profonda di quanto si potrebbe credere.

Il neoliberalismo si pone, infatti, non solo come un concreto atteggiamento politico nel quale l’aggressività del capitalismo assume il volto impassibile di Margaret Thatcher o lo sguardo assente di Ronald Reagan. Si tratta piuttosto di un vero e proprio progetto di civilizzazione alternativo a quello tradizionale, in crisi già da tempo. Mettere al centro della sfera economica facoltà del linguaggio, performance e reciproco riconoscimento non è solo un modo per consolidare il potere di una classe egemone. L’obiettivo è più ambizioso: organizzare il mondo in modo tale che non si torni all’abisso dei campi di sterminio. A tal fine, il neoliberalismo cerca di trasformare ciò che per le società tradizionali costituiva un pericolo in risorse economiche sulle quali fondare un “ordine cosmico” (p. 35 e sgg.).

Con sottigliezza d’analisi, il libro sottopone questo processo ai raggi X. Il neoliberalismo propone il mercato come forma umana cardine di un nuovo cosmo poiché, a partire dalla fine del XX secolo, l’economia diviene speculativa e ritual-performativa. Con il termine «speculativo» De Carolis non si riferisce semplicemente al guadagno di chi compra a uno per rivendere a due. Egli indica piuttosto un tratto oggi ben evidente nel sali-scendi dei titoli finanziari. Il valore di un titolo è legato innanzitutto a cosa gli operatori di mercato pensano di quel prodotto; ciò dipende, a propria volta, da quale sia la reputazione di questi operatori (ad esempio agenzie di Rating o grandi gruppi finanziari) presso altri soggetti economici, in una spirale virtualmente infinita. Questa economia è speculativa perché specula, cioè produce profitto, attraverso le immagini speculari (riflesse) del valore di un prodotto che si muove in qualcosa di simile al perno attrattivo di ogni Luna-park: il labirinto degli specchi deformanti.

Secondo il libro, l’efficacia antropologica del modello neoliberale è legata in modo diretto al carattere linguistico della vita umana. Il capitalismo finanziario vive di gesti verbali: scommesse sul futuro di un’azienda, promesse di rientro dal debito, annunci di un tasso d’interesse. Il rovescio della libertà approfondisce la questione cogliendone un aspetto centrale. Il carattere smaccatamente linguistico del cosmo neoliberale tende a entrare in osmosi con una dimensione antropologica che fino al XX secolo è appalto esclusivo delle pratiche rituali. Nel rito, parola e azione si scambiano la sedia. Per comprenderlo, è sufficiente pensare a ciò che la linguistica, da Austin e Benveniste in poi, chiama “enunciato performativo” (p. 142). Quando esclamo “io prendo questa donna come mia sposa” non descrivo uno stato di cose ma lo produco parlando.

Nella parola rituale il linguaggio letteralmente agisce, poiché pone in atto ciò di cui dice. Viceversa, nel rito il gesto di solito non ha la funzione di compiere un’azione, bensì di divenirne il simbolo. In un combattimento rituale, l’obiettivo non è vincere il combattimento ma allestire una allegoria in grado di sostituire lo scontro vero e proprio. Il neoliberalismo mette al centro della propria cosmologia esattamente quel che il mondo precapitalistico tendeva a rannicchiare in un angolo, il cortocircuito tra performance linguistiche e azioni rituali: la prestazione di un’azienda oggi consiste non tanto in una produzione già avvenuta, ma nella fiducia che esprimono gli investitori su risultati eventuali futuri.

Sin dal titolo, di certo non trionfale, il libro presagisce dove si vuole andare a parare: oggi questo congegno civilizzatore mostra il proprio fallimento. Il neoliberalismo è già al “tramonto”; la civiltà occidentale continua a essere in “crisi”; la “libertà” promessa dai neoliberali ha il suo “rovescio” nel fatto che si è risolta “in un sistema di dipendenze vassallatiche, attraverso le quali i vertici della piramide si assicurano il controllo preventivo, e legalmente tutelato, dell’intraprendenza altrui” (pp. 126-127). L’agente infiltrato esce finalmente allo scoperto per sottolineare che la prospettiva di un mondo più pacifico, più giusto e ricco caldeggiata dalle varie anime del neoliberalismo non si è realizzata; occorre dunque lavorare a una prospettiva antropologica ed etico-politica molto diversa.

Questa ricostruzione, proprio perché così elegante e originale, meriterebbe un dibattito articolato e a più voci. Mi limito a segnalare qualche punto problematico e una loro interpretazione critica. Nel libro, è possibile rintracciare una serie di concessioni pesanti proprio al modello di cui si auspica il superamento. “L’intuizione basilare del neoliberalismo” che nel “mercato si schiude uno spazio ambiguo e potenziale che precede ogni compiuta distinzione tra amici e nemici” è ritenuta “tanto preziosa” che da essa “nessun progetto politico futuro potrà mai prescindere” (p. 291). Il sistema neoliberale, inoltre, si sarebbe affermato “senza incontrare resistenze insormontabili” (p. 159) poiché “alla fine degli anni Settanta, le forme più organizzate di opposizione al neoliberalismo apparivano tutte largamente inadeguate” (p. 120) alla sfida, tanto che finirono per adottare “una posizione sostanzialmente parassitaria” (p. 154). Il punto è assai delicato giacché si tratta di intendersi su una distinzione sottile, come sottili sanno essere le questioni decisive.

Affermazioni tipo “il neoliberalismo non ha trovato resistenze insormontabili” paiono scivolose. Se sono vere, sono tautologiche: chi vince non può che aver sconfitto, cioè sormontato, gli avversari. Se non sono tautologiche, allora sono difficili da sostenere. E’ tipico della propaganda neoliberale (non di un’antropologia critica) liquidare i movimenti di contestazione del ‘68-77 come poco rilevanti. È storicamente difficile liquidare la forza effettiva e il potenziale sovversivo dei movimenti rivoluzionari che in Occidente hanno messo a soqquadro produzione in fabbrica e aule universitarie, relazioni familiari e bilanci statali, stereotipi sessuali, psichiatrici e razzisti.

Qual è la ragione, allora, di simili concessioni? Alla discussione offro due ipotesi. La prima può esser formulata con semplicità: non è escluso che esse risentano, come capita a Johnny Depp nello splendido Donnie Brasco (Newell, 1997), del lungo periodo passato sotto copertura. Se così fosse, il dato non sarebbe da sottovalutare poiché avrebbe anch’esso un significato teorico. L’assunzione di alcune delle premesse antropologiche del neoliberalismo da parte di una prospettiva tanto raffinata non è frutto di una semplice contingenza psicologica, bensì sintomo di una questione più profonda. Forse il sistema che il libro reputa già al tramonto è più coriaceo di quel che ci potremmo augurare. Uno dei motivi di una simile capacità di resistenza potrebbe esser legato proprio ai paradossi logico-antropologici illustrati dal rovescio della libertà. Si tratta di paradossi tanto profondi da donare allo spettacolo delle merci una carica talmente ipnotica dalla quale è difficile sottrarsi. Sarebbe complicato per chiunque evitare la vertigine di un soggiorno prolungato nel labirinto degli specchi.

La seconda ipotesi circa la presenza di concessioni tanto impegnative ha una struttura teorica più articolata che, per assonanza con il libro, potremmo chiamare “il rovescio di Chomsky”. É noto che il linguista e attivista politico statunitense abbia più volte provato (ad esempio nel celebre dibattito con M. Foucault) a dedurre la necessità naturale di una società di tipo anarchico da una teoria della natura umana fondata sulla creatività libera della facoltà del linguaggio. Peccato, però, che proprio a partire dall’apertura umana alla contingenza non pochi intellettuali europei (da Lorenz ad Heidegger) avessero dedotto in precedenza la necessità salvifica del nazionalsocialismo. A volte, il testo di De Carolis pare subire la tentazione di un percorso inverso per direzione ma simile per logica.

Invece della proposta «da una certa teoria natura umana deduciamo la vittoria di istituzioni politiche naturali per la specie» nel lettore sorge di tanto in tanto il dubbio che si simpatizzi per una proposta a fattori invertiti, riassumibile nel modo che segue: «dalla vittoria di istituzioni politiche (nel nostro caso il neoliberalismo) dobbiamo dedurre, seppur obtorto collo, la maggiore aderenza alla realtà della antropologia teorizzata da quel sistema rispetto a quello di chi, dallo scontro, è uscito con le ossa rotte». Il libro insiste con lucidità sul fatto che chi vince deve pure avere avuto un appiglio nell’antropologia. Cosa ben diversa, però, è carezzare l’idea di una deduzione che trasporti la vittoria politica di un sistema sul piano di una maggiore validità antropologica. D’altronde, se una deduzione del genere fosse plausibile, cosa saremmo costretti a concedere allo schiavismo, vale a dire a un sistema che ha prosperato non trent’anni ma per millenni?

Riferimenti bibliografici
M. De Carolis, Il rovescio della libertà. Tramonto del neoliberalismo e disagio della civiltà, Quodlibet, Macerata 2017.
J. L. Austin, Come fare cose con le parole, Marietti, Genova 1987.

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