Ce qui guide encore le mieux, c’est l’odeur de la merde.
L. F. Céline
Negli ultimi cento anni l’Italia è stata laboratorio mondiale della politica in almeno tre occasioni: il fascismo, il terrorismo e Berlusconi. Tutti fenomeni nati da queste parti e poi apparsi altrove con forza esplosiva moltiplicata. Per venire alla questione che ci interessa: in Italia parecchi anni fa e, più di recente, negli Stati Uniti, i milionari si sono trovati d’accordo con i diseredati che ormai solo un milionario ci può salvare. Badiou interpreta il fenomeno del milionario come una sudditanza più o meno consapevole delle masse al cosiddetto “pensiero unico” del liberismo, per cui sostanzialmente non c’è scelta, le cose stanno così: Il mercato e l’istituto della proprietà privata sono la nostra storia e il nostro destino, nonostante i granelli di sabbia e l’ingente quantità di dolore che impediscono il funzionamento perfetto della macchina (cfr. Badiou 2018, pp. 12-13) . Quindi non c’è nulla di strano nell’eleggere un capitalista a capo del governo.
Badiou ha espresso tutto il suo sconcerto in due conferenze tenute in America poco dopo l’elezione a presidente del biondo tycoon con la bocca a culo di gallina. Trump – come già Berlusconi venticinque anni fa – piace soprattutto perché è nuovo. Ma fa “cose nuove” solo per chi manca di memoria storica anche a brevissimo termine. Ad esempio, propone un protezionismo tagliato con l’accetta che pare molto controtendenza. Ma questa, come le altre scelte di Trump, è una delle «varianti cadute nel dimenticatoio di quell’unica via che ci viene imposta come inevitabile» (pp. 20-21). Non solo “mercato”, ma “mercato + dazi”, cioè una forma di capitalismo primonovecentesco e regressivo.
Trump – è evidente a chiunque – ha la cultura politica del liceale che siede in ultimo banco. Conosce poco del mondo in cui vive, tratta gli affari di stato e i problemi dell’economia americana come se fosse nel mezzo di una rissa o di un board aziendale. Avvantaggiato dalla sua ignoranza crassa, ha usato lo strumento democratico e “razionale” delle elezioni servendosi di una comunicazione fatta di reazioni emotive twittate e coinvolgimento carismatico che poco si cura della logica e dell’argomentazione (p. 19). I suoi cinguettii sono truismi oppure sciocchezze, talvolta involontari nonsenses (come il “negative press covfefe” di un anno fa). Neppure la conversazione rubata in cui parlava di donne come farebbe uno smanettatore di Youporn lo ha reso antipatico agli aficionados.
Gli scandali sessuali hanno tutt’altro che danneggiato Berlusconi e molti trumpisti sono segretamente affascinati da questo padre dell’orda primitiva che immagina di corteggiare la figlia bionda come lui. È un pensiero che senz’altro attraversa la testa di molti padri, ma nessun uomo pubblico l’aveva detto in televisione. Trump, «il razzista, sciovinista e brutale» (p. 19) e anche un poco incestuoso, piace. Un uomo politico può aumentare la popolarità in modo direttamente proporzionale all’esibizione di un cinismo gaglioffo. Questa è la ragione principale del successo degli arruffapopolo che da un trentennio a questa parte occupano la ribalta. Dopo Trump l’apologia dello sfruttamento – che secondo Badiou è consustanziale a ogni regime economico capitalistico – è «accompagnata da una musica di diversa natura rispetto a quella a cui i classici politici della borghesia intellettuale ci avevano abituato» (p. 20) . Badiou allude, ma non dice con chiarezza di cosa è fatto il “fascismo democratico” di Trump. Possiamo fare la seguente ipotesi: il fascismo – trumpista, lepenista, leghista, orbániano, erdoghaniano, ecc. – è una condizione emotiva fatta di impazienza e paura. I suoi segni più evidenti sono la lotta senza quartiere al politicamente corretto e un apocalitticismo da salotto.
Il politicamente corretto è l’autocensura che ci fa dire “persona di colore”, quando faremmo prima a dire negro. George Soros è chiaramente giudeo, perché i giornalisti prezzolati passano sotto silenzio questo fatto? Oppure – esempio più trumpiano, perché è davvero capitato nel 2015 –: il reporter Serge Kovalesky è spastico, vogliamo fingere di non vederlo? Facciamone la caricatura e mandiamolo a quel paese. La verità delle cose è sotto gli occhi di tutti. La verità è facile, basta usare le parole che tutti conoscono. Il politicamente corretto, invece, fa un giro attorno alla cosa. Questa è ipocrisia! Andiamo all’osso della questione! C’è chi si perde nel “fare la corte” per ottenere lo stesso risultato di uno stupro. Perché sprecare tempo? La parola fascista è sincera, così come la violenza e la pornografia sono la verità dell’amore. Il linguaggio da trivio è la prova che abbiamo a che fare con “verità scomode”.
La rozzezza scambiata per parresia seduce gli americani puritani – le cui uova di Pasqua a un certo punto sono diventate spring spheres, per non offendere nessuno. Ma anche gli italiani democristiani – che per decenni sono andati in sollucchero ascoltando i barocchismi delle “convergenze parallele” – hanno finito con l’abbracciare questa sincerità da avvinazzati. Il mussoliniano “me ne frego” ha covato il “ce l’ho duro” di Bossi, le barzellette sulla figa di Berlusconi e il vaffanculo di Grillo. È così che ci siamo scoperti popolo posseduto da una “giusta ira”: siamo sfanculati dai parlamentari ladri, siamo le vittime del Potere e delle sue orge. Siamo arrabbiati, e ci piace. È arrivato il momento di restituire il colpo: diciamo pane al pane e vino al vino. Il nostro flatus vocis è il rutto che farà crollare il castello di carte degli inganni, in nome della verità, per quanto indigesta possa essere.
Questa impazienza di toccare con le parole il fondo delle cose immagina che, al fondo, ogni cosa è escrementizia. L’apocalitticismo trumpiano-fascista vuole convincerci che stiamo annegando nella materia purulenta di cui è fatto il mondo (per definizione cattivo) e che dobbiamo avere una fifa boia. La classe dirigente ci ha portato sull’orlo dell’abisso, sono dei delinquenti, ci hanno ridotto in brache di tela, ecc. I Trump della Terra agitano lo spettro di una miseria onnidiffusa e di un disastro imminente. Tutti i problemi che riguardano la vita pubblica di un Paese vengono raccolti sotto l’ombrello di una prossima catastrofe, non si sa bene quale. Questo apocalitticismo è il farfugliamento eccitato di chi ha la pancia piena: non tutti, ma quasi tutti gli europei e gli americani, il cui “indicatore di benessere” è incomparabile con qualsiasi regione del mondo, si divertono a immaginarsi miserabili. Il piccolo fascista che ci portiamo dentro non vede quanto siamo pasciuti, ci convince che siamo al tracollo, che la sciagura sta arrivando e che la colpa è loro: del ceto politico, delle élites finanziarie, degli immigrati, poco importa.
Torniamo a quel che dice Badiou: nel panorama del “pensiero unico” si salva solo una «grande idea», quella che «fungerebbe da mediazione fra il soggetto individuale e il progetto collettivo dell’emancipazione comunista» (p. 24). Se questa è l’alternativa – rivoluzione o controrivoluzione – non c’è vera differenza tra il fascismo di Trump e i democrats Hillary Clinton e Obama (pp. 25-26) . Nel suo pamphlet contro Sarkozy di qualche anno fa Badiou (2008) sottoscriveva l’adagio sartriano «Elections, piège à cons». È l’opinione che il massimalismo di sinistra spartisce con il qualunquismo di destra, cioè che la destra e la sinistra parlamentari sono la stessa cosa e che, fino a oggi – soprattutto in Italia –, ha prodotto un solo effetto: far vincere la destra.
Secondo Badiou «dobbiamo passare dall’Uno al Due» (Badiou 2018, p. 52), aprire l’“altra via”. Badiou pensa strategicamente e per contraddizioni: capitale/lavoro, sfruttatori/sfruttati. La sua speranza si chiama rivoluzione, il «nuovo inizio» (p. 28), l’evento messianico che fa tremare il mondo, manda il tavolo a gambe all’aria e permette di riscrivere da capo le regole del gioco. I suoi eroi sono Mao e San Paolo. Badiou non vuole prendere in considerazione la tattica di una politica laica e riformista, che è il solo credibile avversario dei vari Trump sparsi ai quattro angoli del globo. Il riformismo – che ha avuto un certo corso nell’America di Bill Clinton, nell’Europa di Blair, Schröder e Zapatero – è oggi in riflusso. In Italia è rimasto stritolato tra il risentimento della “ggente”, che solleva il dilettantismo spontaneistico a principio programmatico, e lo strapaesismo. Risentiti e strapaesani sognano insieme una “Repubblica Autarchica dei Campanili e degli Scontrini”. Non sarà certo il progetto rivoluzionario di Badiou a fugare questa distopia, se non nei libri.
Se invece si vuole agire, serve una politica paziente, coraggiosa, analitica, capace di prendere in esame una questione alla volta e avvolgere il corpo del problema, pensarlo, adattarvisi, lavoralo, eroderlo. L’azione riformistica non procede per forza di contraddizione e colpi di mano. Non è neppure sostenuta dalla coerenza monolitica di programmi o manifesti. È più vicina a un paradigma militare che religioso. Funziona come l’expanding torrent del capitano Basil Liddell Hart: la fanteria non deve cercare lo scontro frontale, non fa esplodere la contraddizione dei rapporti di forza, ma – sfruttando i punti di minore resistenza – penetra come acqua dentro l’esercito nemico, ne scompiglia l’equilibrio e continua l’avanzata per prenderlo alle spalle. La “corsa del torrente” rompe l’assetto gregario delle unità all’attacco e segna il passaggio da una organizzazione lineare, rigida e continua delle forze a uno spazio plastico e frammentato, fatto di velocità differenti e intervalli. La “macchina da guerra” del riformismo procede in modo mimetico e discontinuo. Aderisce al corpo del problema, s’infiltra per alterare la disposizione degli elementi, ricombinarli in forma di soluzione e padroneggiarlo.
Riferimenti bibliografici
A. Badiou, Trump o del fascismo democratico, Meltemi, Milano 2018.
Id., Sarkozy: di che cosa è il nome?, Cronopio, Napoli 2008.
*L’immagine nella homepage è un dettaglio della copertina del libro.