Se, con un’immagine un po’ ingenua, piuttosto iperbolica, ma suggestiva, volessimo trovare un fil rouge tra Nietzsche e Heidegger, potremmo pensare questo legame a partire dalla loro presenza-assenza nelle trincee della prima guerra mondiale. I soldati tedeschi partirono per la guerra con lo Zarathustra nello zaino e uscirono, i pochi sopravvissuti, dalle trincee con le prime bozze di Essere e tempo. Com’è noto, la gioventù tedesca, fedele ai dettami della politica espansionistica guglielmina ed esaltata da una serie di miti che circolavano nella Germania di fine Ottocento, partì per i campi di battaglia con l’entusiasmo di chi è convinto di compiere la cosa giusta e di farlo nel più breve tempo possibile, per ottenere gloria e onore. Insieme alla foto di famiglia, alle lettere della fidanzata e a oggetti che ricordavano la vita da civili, molti di loro portarono nello zaino Così parlò Zarathustra; elevato a simbolo di ardore, di disprezzo del pericolo e di cambiamento, il capolavoro di Nietzsche incarnava per molti versi lo Zeitgeist della Germania di Guglielmo – Germania che, invero, Nietzsche odiava con ogni fibra del suo corpo e da cui cercò di sfuggire nel suo peregrinare perpetuo.

Questo entusiasmo iniziale scemò quasi immediatamente appena si comprese che quella intrapresa nell’estate del 1914 tutto sarebbe stata tranne che una guerra lampo. Quando, dopo le prime grandi battaglie, la guerra divenne uno sfiancante, insensato e estraniante posizionamento, l’esaltazione iniziale si tramutò in angoscia, noia, assenza di senso, deiezione, frustrazione. Sull’animo dei combattenti cominciarono ad aleggiare tutta una serie di Stimmungen che poco avevano a che fare con quella carica vitalistica che una certa interpretazione di Nietzsche aveva infuso nel popolo tedesco.

Il libro di Pierandrea Amato, Trincee della filosofia. Heidegger e la Grande guerra, si confronta proprio con questa metamorfosi e lo fa, per riprendere ciò a cui accennavamo in maniera apodittica all’inizio, attraverso la filosofia di Martin Heidegger. La tesi suggestiva delle pagine di Amato è da individuare nell’idea che la filosofia del giovane Heidegger, i cui concetti troveranno non senza alcune variazioni significative il loro compimento in Essere e tempo, è comprensibile solo alla luce della Prima guerra mondiale e in particolare nell’esperienza delle trincee. Scrive Amato:

Non esisterebbe la filosofia del giovane Heidegger, almeno per come la conosciamo, il suo vertigi­noso lavoro intorno all’esperienza effettivamente storica della vita, al senso dell’essere, la sua Destruktion degli apparati concettuali consolidati, senza la cesura che la Grande guerra impone alla storia, alla cultura, alla politica moderna. Non avremmo i suoi gran­di allievi di Friburgo; non avremmo le variegate ondulazioni della vita quotidiana consegnate alla trama dell’essere; non avremmo né una turbinosa fenomenologia dell’animalità né una considerazione ontologica dell’angoscia. Non avremmo l’idea che la comprensio­ne dell’esistenza è immancabilmente una pre-comprensione non teoretica fondata sul dato che esistere significa prima di ogni altra cosa essere situati in un mondo di rimandi, legami, relazioni. Più in generale, ovviamente, non avremmo le vicissitudini dell’analitica esistenziale di Essere e tempo (Amato 2022, p. 7).

Attenzione però a non confondere i piani. Quella proposta da Amato non è un’ipotesi storiografica ma ontologica, dunque pienamente filosofica. Certo, la Grande guerra fu essenzialmente un fatto storico con tutte le conseguenze ad esso annesse, ma l’altezza a cui essa viene indagata in Trincee della filosofia è un’altra. Il testo in questione la considera come una vera e propria categoria filosofica, arricchendo una serie di studi, di ricerche, di convegni e di curatele che almeno dal 2014, ossia in concomitanza con il centenario dello scoppio della prima guerra mondiale, occupano in maniera ricorrente una parte importante del lavoro filosofico dell’autore; solo a titolo di esempio basterà citare la curatela di due volumi collettanei: uno del 2016 intitolato La filosofia e la grande guerra, l’altro del 2018 dal suggestivo titolo Rappresentare l’irrappresentabile. La Grande Guerra e la crisi dell’esperienza.

Nei testi del giovane Heidegger Amato individua il punto di tangenza delle due direttrici attraverso cui analizzare la Grande guerra nel suo spessore filosofico. Heidegger, in quanto sensibilissimo sismografo della sua epoca, riesce a captare le oscillazioni teoriche della modernità, culminata con un evento, l’eccidio della prima guerra mondiale, che, paradossalmente, sconfessa tutto l’impianto su cui si era eretta la razionalità occidentale. Nelle trincee [Graben] della Grande guerra la filosofia, la cultura e in generale il progetto umanistico trovano la loro tomba [Grab]. L’idea di un soggetto, dotato di ragione e capace di prendere le distanze dal mondo che lo circonda per rappresentarlo, non funziona più; ha perso il suo carattere performativo. D’altra parte una delle sfide del libro qui analizzato e in generale la posta in gioco delle riflessioni di Amato sulla Grande guerra è proprio questo: è possibile rappresentare l’irrappresentabile? O, che è lo stesso, come porsi di fronte [vor-stellen] a un compito che, come ricorda Giorgio Agamben, è per essenza impossibile, vale a dire la testimonianza?

Ma la guerra, oltre alla distruzione, o forse proprio in virtù di essa, porta con sé la chance per un cambiamento epocale – qui si dispiega il secondo asse interpretativo connesso strettamente al primo. Sotto la cenere fumante dei campi di battaglia si annida l’opportunità, ancora tutta da esplorare, costruire, orientare, per andare oltre quei presupposti che hanno reso possibile la guerra stessa. È questo, d’altro canto, il senso, anche etimologico, dell’idea di catastrofe. La grandezza del pensiero di Heidegger, per Amato, risiede proprio nel porsi nel punto intermedio tra la comprensione della catastrofe e il progetto di una riedificazione della filosofia a partire dalle sue fondamenta. Anticipando di qualche anno uno dei capisaldi del pensiero del cosiddetto “secondo Heidegger”, già qui si troverebbe il gioco di passaggio [Zuspiel] tra primo e altro inizio del pensiero; il profondo legame ontologico tra la fine e l’(altro) inizio. «La Grande guerra rappresenta, dunque, una rottura brutale, uno spartiacque della storia moderna, scoperchiando l’ampiezza vertiginosa della crisi: la sua filosofia è il tentativo grandioso di individuare una via d’uscita da questa lacera­zione assumendo sino in fondo la tragedia, ma allo stesso tempo la chance, offerta dalla catastrofe delle trincee»(ivi, p. 9).

Il nome di Heidegger, fin qui, è suonato come referente privilegiato di un discorso filosofico sulla Grande guerra. Ma chiunque abbia un po’ di dimestichezza con l’opera heideggeriana sente stridere forte il senso di una forzatura; nelle pagine di Heidegger non vi è traccia di riferimenti diretti al primo conflitto mondiale. Se si esclude un discorso d’occasione e la definizione convenzionale che si dà a un suo corso universitario, il cosiddetto Kriegsnotsemester, dai testi di Heidegger sembra che la Grande guerra non ci sia mai stata. Ed è proprio a quest’altezza che a mio avviso il testo di Amato compie un’operazione azzardata ma perfettamente riuscita, in quanto mostra come proprio il silenzio rispetto agli eventi di guerra avvenuti tra il 1914 e il 1918 nel cuore dell’Europa sia più significativo di ogni eventuale riferimento o di ogni possibile richiamo effettivo. Nel rapporto di Heidegger con la guerra si mostrerebbe la cifra più propria della guerra stessa: la sua indicibilità.

L’ipotesi qui in campo è che il suo sostanziale riserbo durante tutti gli anni Venti sulla guerra rappresenta un sintomo in grado di testi­moniare il peso che il primo conflitto mondiale possiede nella trasfi­gurazione di alcune coordinate fondamentali della filosofia. Vale a dire, il fatto che Heidegger non lasci penetrare esplicitamente i temi della guerra nella trama dei suoi studi non documenta l’irrilevanza della questione, ma, al contrario dimostra che ne coglie perfetta­mente il dato essenziale: la sua indicibilità/impensabilità (ivi, p. 32).

Ma se della guerra non si può far parola, perché, in fondo, come ricorda Benjamin, di essa non possiamo fare esperienza, essa tuttavia nel silenzio del suo lavorio, nell’abisso della sua tragedia contribuisce a foggiare gran parte delle categorie attraverso cui Heidegger progetta negli anni venti una rifondazione della filosofia. Nelle pagine di Trincee della filosofia Amato, attraverso una certosina analisi dei testi heideggeriani dai primi anni venti fino a Essere e tempo, passa in rassegna i pilastri della grammatica filosofica heideggeriana, mostrando come ogni termine, ogni concetto rifletta in maniera più o meno consapevole una filiazione diretta dell’esperienza della Grande guerra. Il lettore seguirà da sé il percorso tracciato da Amato tra i vorticosi tornanti del pensiero heideggeriano. In queste brevi battute finali mi limito all’intreccio di due concetti chiave dell’analitica esistenziale degli anni venti: l’angoscia e l’essere-per-la-morte.

Nel Prologo del primo capitolo Amato analizza la serie tv Peaky Blinders alla luce dell’importanza che l’esperienza della Grande guerra riveste per la formazione del carattere di alcuni personaggi; in particolare di coloro che presero effettivamente parte alle operazioni militari del contingente britannico. Per tutta la prima stagione – sono sei in totale – c’è una scena che si ripete in maniera pressoché ossessiva: il protagonista, il gangster in ascesa Thomas Shelby, reduce di guerra, ricorda in sogno, obnubilato dai fumi dell’oppio, sempre la stessa azione. Una trincea asfissiante e il rumore martellante dei picconi nemici che, nello spazio ovattato del sottosuolo, caricano d’angoscia la scena in quanto presagio imminente, ma al contempo indefinito, di morte.

Ecco, in questa scena è condensato, a mio avviso, il senso dell’importanza che la guerra, nell’interpretazione di Amato, ricopre per l’elaborazione di alcuni concetti chiave del pensiero heideggeriano. Nelle trincee, laddove ci si annoia e ci si angoscia da morire, insieme a dio scompare anche l’uomo, o meglio l’uomo così come è stato pensato dalla tradizione occidentale. Se, morto dio, la filosofia ha ancora qualcosa da dire, essa può farlo solo a partire dalla contingenza della situazione particolare, dalla gettatezza dello spazio deiettivo dell’esistenza, in cui la posta in gioco è quel doppio legame, mai dialetticamente risolvibile e senza alcuna redenzione [Erlösung], tra perdizione e ripresa, tra catastrofe e salvezza.

Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, Bollati Boringhieri, Torino 1998.
P. Amato, a cura di, La filosofia e la grande guerra, Mimesis, Milano-Udine 2016.
P. Amato, S. Gorgone, G. Miglino, a cura di, Rappresentare l’irrappresentabile. La Grande Guerra e la crisi dell’esperienza, Marsilio, Venezia 2018.

Pierandrea Amato,Trincee della filosofia. Heidegger e la Grande guerra, Mimesis, Milano-Udine 2022.

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