Ogni documentario contiene
una storia
e ogni storia dovrebbe documentare
qualche cosa:
questo è il cinema della realtà,
quello che a me piace.

«Lì in condizioni difficili ho conosciuto una dimensione nuova che era il mondo popolare. Da quel momento ho sempre avuto l’idea di un debito» (De Seta in Fofi, Volpi 1999, p. 9). Lì è un campo di concentramento tedesco in Austria dove il ventenne Vittorio De Seta trascorre due anni della sua vita fino all’aprile del ‘45. È, anche, da questo “debito”, dall’orrore della guerra vissuto in prima persona da cui eredita una sorta di obbligo morale verso gli ultimi – i dimenticati potremmo dire citando uno dei suoi titoli più famosi – che nascono i primi documentari degli anni ’50 di Vittorio De Seta. È cioè dopo questa esperienza traumatica che De Seta si avvicina al cinema e, significativamente, il primo contatto con il cinema avviene proprio grazie all’amicizia con i ragazzi siciliani della Panaria Film, appassionati di pesca e pionieri del cinema documentario subacqueo in 35mm.

Dei dieci documentari girati nel Sud Italia (in Sicilia, Calabria e Sardegna) tra il 1954 e il 1959, e in generale di tutto il cinema documentario e non di De Seta si parla, a buon ragione, di un cinema antropologico. Di origini nobili (una famiglia aristocratica calabrese), De Seta si interessa al mondo popolare dell’Italia meridionale. Ma va anche sottolineato che l’interesse di De Seta per il Sud non nasce come per altri autori a lui contemporanei (Di Gianni, Gandin, Mangini) per le pratiche di magia, i rituali funebri, e tutte quelle manifestazioni irrazionali magico-religiose che l’opera di Ernesto De Martino in quegli anni aveva portato all’attenzione. A parte Pasqua in Sicilia (1955) dove De Seta abbandona momentaneamente la fatica della terra e del mare per concentrarsi sulla devozione popolare che ogni anno anima le celebrazioni religiose di tre paesi siciliani, ed escludendo il dittico sardo costituito da Pastori di Orgosolo e Un giorno in Barbagia (1958) che possiamo considerare come una sorta di sopralluogo del primo lungometraggio desetiano Banditi a Orgosolo, nei 7 documentari siciliani De Seta piuttosto «si rivolge alla quotidianità ciclica della cultura contadina, al lavoro sulla terra e in mare, e più in generale al rapporto tra uomo e natura» (Nappi 2015, p. 49).

La capacità di osservazione e di analisi della dimensione umana è quindi calata in un paesaggio socio-antropologico che non fa mai solo da sfondo ma è in stretto contatto con le attività umane. Al centro dei suoi documentari contadini, pastori, minatori e marinai colti nella vita di tutti i giorni: De Seta cioè racconta di uomini semplici, immortalati in attività antiche (il lavoro nei campi, la pesca, i pascoli) e mai slegati da un rapporto profondo, ombelicale con la natura. Nel suo rinnovato rapporto con la natura, l’uomo desetiano è inserito in un paesaggio che il regista palermitano osserva nella sua (s)composizione elementare, nel senso etimologico di “elemento”, in acqua e terra soprattutto ma anche aria e fuoco (si pensi ad Isole di fuoco, dove per altro la terra è caratterizzata da quella particolarissima terra di mezzo che è l’isola). Come notava Farassino infatti, «i suoi documentari sono grandi melodrammi del lavoro, della terra e del mare» (Farassino in Alessandro 1995, p. 70).

Sulla terra sono ambientati il già citato Isole di fuoco (1954), Parabola d’oro (1955) e Surfarara (1955), nel mare Lu tempu di li pisci spata (1954), Contadini del mare (1955) e Pescherecci (1958). Muovendosi tra questi due elementi, tra mare e terra, De Seta descrive il mondo proletario a lui caro apportando delle novità non solo nella forma – per il ritmo serrato del montaggio, la vivacità del colore e il suono in presa diretta – ma anche nel contenuto di rappresentazione: nel gioco di forza tra terra e mare, tra questi due potenti elementi che descrivono il paesaggio desetiano, è il mare il protagonista indiscusso, ancora una volta in maniera nuova rispetto alla produzione coeva. Nei documentari girati al sud del periodo, infatti, il mare è poco presente e quando compare emerge come luogo non d’azione ma di contemplazione mentre è la terra, dove si lavora, la vera protagonista dei film. In De Seta invece il mare è un luogo dove si vive, e quindi dove si riposa, si dorme, si mangia (si vedano i momenti del ristoro e del gioco nei corti “di mare”) ma soprattutto si lavora (proprio come sulla terra): emblematico da questo punto di vista il corto Contadini del mare in cui sin dal titolo, i pescatori, sono contadini, cioè lavoratori non della terra ma del mare.

Tutto avviene nel mare, la narrazione avviene nel paesaggio marino e sulla terraferma si torna al limite a fine lavoro, quindi a fine corto perché in De Seta c’è quest’arcaica concezione circolare del tempo per cui si parte per il mare la mattina all’alba e si ritorna la sera al tramonto: è la struttura fissa dei suoi corti. La terra è invece o, al pari del mare, luogo in cui si lavora (come in  Parabola d’oro, il primo documentario di De Seta in Sicilia in cui l’autore sposta l’attenzione dal mare alla terra, al mondo dei contadini, mostrando la raccolta estiva del grano) o luogo di pericolo, di un difficile rapporto con la natura spesso ostile: la tempesta e la minaccia delle eruzioni vulcaniche sulle isole in Isole di fuoco in cui le azioni degli uomini appaiono sovrastate dall’elemento naturale, ma anche l’umile e duro lavoro sottoterra nelle miniere di zolfo siciliane in Surfarara, in cui De Seta si cala letteralmente con la sua macchina da presa nella profondità delle grotte buie e soffocanti in cui i minatori compiono attività massacranti.

Lo sguardo di De Seta su questo paesaggio “elementare” è uno sguardo sempre da dentro: il regista sta nel paesaggio, tra i suoi elementi, a ridosso delle onde del mare sulla barca in preda alla tempesta (Pescherecci), nei campi sterminati sotto il sole cocente di fronte le balle di fieno e il grano che i contadini sollevano con il forcone e che poi il vento vola via proprio lì, sull’obiettivo della macchina da presa (Parabola d’oro), alle pendici del vulcano in piena eruzione (Isole di fuoco), nel cuore della terra (Surfarara). Il regista, la macchina da presa sono li, nel mezzo, nel movimento, nel paesaggio; il paesaggio diventa cioè attore della narrazione, un altro personaggio insieme all’elemento antropico: «Essere in quello che si filma e non di fronte a esso sembra l’obiettivo principale che si pone il regista, quasi che le immagini possano scaturire dal paesaggio e dai gesti degli uomini» (Nappi 2015, p. 44).

E che sia un paesaggio terrestre o marino, in questo mondo arcaico, perduto, raccontato da De Seta nei documentari siciliani, l’uomo, vivendo a stretto contatto con la natura, si fonde con essa, si plasma al paesaggio in cui vive (se è un paesaggio di mare trasferisce la sua esistenza sul mare); paesaggio meridiano che solo nelle opere di De Seta possiamo rivedere con quel suo «splendore visuale» che Lino Miccichè individuava come «limite del documentarismo di De Seta» (Miccichè 1975, p. 187). Quel paesaggio e quelle attività antiche (la pesca del tonno, la mietitura del grano, le miniere di zolfo) sono oggi un mondo perduto ma attraverso i documentari di De Seta sappiamo qualcosa di quel mondo, e del rapporto dell’uomo con la natura, del suo stare al mondo sulla terra e sul mare. Quando gira i documentari siciliani negli anni ‘50 ancora non lo sa, ma nelle opere successive lamenterà la scomparsa di questo mondo; a proposito di Lu tempu di li pisci spata, anni dopo dichiara: «Era un tempo mitico. Nessuno di noi sospettava che quel mondo che si era formato nel corso dei millenni, di lì a due anni sarebbe stato spazzato via, ucciso violentemente dalle macchine, dal boom economico, dalla grande emigrazione, dalla superstizione del “progresso”». Ancora dieci anni dopo quando il tempo e lo spazio che viviamo continuano ad essere stravolti dalla tecnologia e oggi infettati da un virus, lo sguardo di De Seta si ripropone sempre attuale, come uno sguardo da dentro le cose, uno sguardo che sa attendere (l’arrivo del pesce spada così come il passaggio dei tonni), sempre errante e in continua ricerca.

Riferimenti bibliografici
V. De Seta in G. Sole, a cura di, Trentacinque millimetri di terra: la Calabria nel cinema etnografico, Università della Calabria, Cosenza 1992.

A. Farassino, De Seta: La Grande Forma del documentario, in R. Alessandro, a cura di, Il cinema di Vittorio De Seta, Giuseppe Maimone editore, Catania 1995.
G. Fofi, G. Volpi, a cura di, Vittorio De Seta. Il mondo perduto, Lindau, Torino 1999.
L. Miccihè, Il cinema italiano degli anni ’60, Marsilio, Venezia 1975.
P. Nappi, L’avventura del reale. Il cinema di Vittorio De Seta, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 2015.

Vittorio De Seta, Palermo 15 ottobre 1923 – Sellia Marina 28 novembre 2011. 

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