Un uomo e una donna, un padre e una figlia, sono seduti uno davanti all’altra. Lei è una regista, lui un filosofo e un militante politico. Sono Anna Negri e suo padre, Antonio, detto Toni. C’è una bella luce intorno a loro, i loro volti sono illuminati, eppure il loro dialogo non fa che rivelare le mille ombre che attraversano il loro rapporto. Non si tratta di segreti, ma di uno spazio che li divide, pur nell’evidente sentimento di amore che li unisce. “Come puoi, oggi, affermare ancora che il comunismo trionferà?”, chiede Anna a suo padre. “Potrai non crederci, ma è così: il comunismo alla fine trionferà”, risponde lui.
È in questo rapido scambio di battute che si colloca la potenza dinamica di Toni, mio padre, il film che Anna Negri ha realizzato sulla figura di uno degli intellettuali più radicali e influenti nel dibattito e nella scena pubblica italiana dagli anni settanta ad oggi.
Una figlia realizza un film su (e con) suo padre, uno sguardo si posa non su una situazione esterna alla propria vita, ma di fatto, si concentra sulla propria intimità: è questa una linea narrativa che attraversa ormai da diversi anni l’orizzonte del documentario contemporaneo, con esiti alterni. Come filmare “dall’interno”? Filmare cioè qualcuno che fa parte della propria sfera privata? E che, una volta messo in immagine, fuoriesce da tale sfera per diventare immagine pubblica, condivisa? Le risposte sono molteplici, e corrispondono di fatto alle diverse modalità con cui il documentario contemporaneo ha affrontato questi temi.
Un film su e con Toni Negri, deve ricostruirne l’itinerario pubblico? Riprenderne la folgorante carriera accademica che ne fece il più giovane professore ordinario d’Italia, ricostruire la militanza politica, l’arresto, l’esilio e il ritorno in Italia? La regista deve cedere il passo all’uomo che sta filmando? O entrare nel film, rivendicare la sua posizione di figlia oltre che di regista (Anna e non solo Anna Negri)?
È l’inizio stesso del film a darci una prima risposta. Poche inquadrature sugli scorci di una casa, un appartamento pieno di libri, di foto, di oggetti che ricordano una vita. Poi una scrivania, piena di carte e libri. Nessuno è seduto lì, la scrivania è vuota, come l’appartamento. È lo spazio senza Toni Negri, morto nel 2023. Il film che lo ritrae insieme a sua figlia Anna è dunque un film che fa rivivere un fantasma, o meglio il corpo a corpo con un fantasma. Il fantasma di un uomo? Forse più il fantasma di un rapporto. Film come riflessione postuma, ma al tempo stesso traccia viva di un incontro.
Toni Negri appare: è magro, smunto, i segni del tempo incisi sul volto. La voce fuori campo di Anna chiede: “Secondo te, perché sto facendo questo film?”. Dopo un attimo di esitazione, la risposta: “Sei mia figlia”. Risposta poi accompagnata da una serie di affermazioni sulla vita in comune, sull’incrocio tra esistenze. Ma è la prima frase, quella che Toni Negri dice immediatamente, che dà il senso a tutto. La domanda di Anna Negri apre dunque il film di fantasmi con l’incertezza: perché fare un film, questo film? La risposta di Toni Negri coglie nel segno; sei mia figlia, e questo è il tuo modo di cercare il senso del nostro rapporto.
Da qui il percorso può iniziare, appunto come domanda, questione aperta. Non si tratta di fare un ritratto, né di svelare zone d’ombra o segreti nascosti. La luce permane lungo tutto il film. Si tratta invece di fare del film un gesto, un atto. Il suo senso sta proprio nel filmare la complessità di un rapporto come quello di Anna con suo padre. “Sono stato un pessimo padre», aveva scritto Toni Negri nella sua autobiografia, perché? Perché lo strappo dell’arresto e della condanna, poi quello dell’esilio hanno fatto sì che la figura paterna fosse assente, per Anna e per suo fratello Francesco.
Qual è dunque il gesto? Proprio quello di interrogare l’assenza, la ferita, lo strappo. Anna Negri ha portato avanti la sua vita, studiando cinema a Londra, Parigi, in Belgio. Ha costruito la sua carriera, realizzando commedie lunari come In principio erano le mutande (1999), girando episodi di soap opera famose come Un posto al sole, realizzando film a bassissimo budget come Riprendimi (2008), un’opera che riflette proprio sulla potenza e l’ossessione del filmare. Negli ultimi anni della vita di Toni Negri, inizia a filmare non lui, ma i loro incontri, le discussioni, le parole, gli sguardi, i silenzi e i racconti. Il gesto è allora quello del filmare l’incertezza (“perché fare questo film?”), non la cancellazione del dolore, dell’assenza, ma la possibilità di raccontare e raccontarsi un rapporto, malgrado tutto questo. La necessità di farne cinema. E tutto, in un certo senso, ha inizio in quella notte del 1977, quando i carabinieri irruppero in casa Negri per arrestare suo padre, come Anna Negri racconta nella sua autobiografia, Con un piede impigliato nella storia.
È anche per questo che il film procede per salti, avanti e indietro. Ci sono le città frequentate da Toni Negri, ci sono gli oggetti, gli spazi, i libri. Soprattutto c’è Anna insieme a lui, che spesso entra in campo, con il corpo, con la voce, con entrambi. Entrare in campo non per narcisismo, ma per ribadire ancora una volta che il film procede e può procedere solo se è un mettersi in gioco, per lei e per suo padre. Ci sono gli scontri, le incomprensioni (come il dialogo citato all’inizio); ma ci sono anche momenti di intesa e vicinanza, come quando Anna accompagna il padre in sedia a rotelle lungo le calli di Venezia, mentre lui racconta le sue memorie di quei luoghi che hanno caratterizzato una parte della sua vita.
C’è il racconto degli eventi, ci sono alcune immagini di archivio. C’è a tratti il tentativo di dare una linearità al racconto. Emerge, anche lei fantasmatica, la figura della madre di Anna, che a lungo lottò per il suo compagno e per la sua famiglia. Lo squilibrio tra le parti, tra i momenti, le ellissi, i salti avanti e indietro nel tempo non sono un “errore” di scrittura, al contrario. Sono uno dei segni di un cinema che mostra l’amore e il dolore di un incontro ai margini di un’esistenza. Un ritratto allora, sì, ma un doppio ritratto fantasmatico, di un padre, di una figlia e della loro storia e, sullo sfondo, il ritratto di un’epoca e delle sue idee.
Riferimenti bibliografici
T. Negri, La galera e l’esilio. Storia di un comunista, Ponte alle Grazie, Milano 2017.
A. Negri, Con un piede impigliato nella storia, Feltrinelli, Milano 2009.
Toni, mio padre. Regia e soggetto: Anna Negri; fotografia: Stefano Savona, Christopher Gallo; montaggio: Ilaria Fraioli; musiche: Giulia Tagliavia; interpreti: Anna Negri, Toni Negri; produzione: MIR Cinematografica, Mediaart Production Coop, Centro Produzione Videa, Home Movies, AAMOD – Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico; origine: Italia, Francia; durata: 109’; anno: 2025.