Una lenta panoramica dall’alto blandisce i corpi di tre donne. L’occhio dello spettatore è indotto a osservare, ma con distaccata partecipazione: carezza il quadro, ma non vi si immerge, non si identifica con ciò che vede scorrere, condivide con rispetto il dignitoso dolore messo in scena da Nader Saeivar, regista di The Witness (Shahed) (2024), vincitore a Venezia 81 del premio del pubblico nella categoria Orizzonti Extra.

La disposizione è plastica, le membra si intrecciano fondendosi in un unico cuore pulsante. Sulle ginocchia di Tarlan (Maryam Bobani), insegnante di danza in pensione e attivista per i diritti delle sue colleghe nonché fervente sostenitrice delle organizzazioni sindacali, è poggiato il volto tumefatto di Zara, in cerca di conforto dopo gli ennesimi abusi subiti dal marito, il quale vorrebbe indurla a chiudere la sua scuola di danza. Sulle caviglie di Zara, a sua volta, è accoccolata la figlia Ghazal, rannicchiata in posizione fetale. Nel centro nevralgico del film, Saeivar inserisce una sorta di intenzione programmatica, di sunto ideologico del proprio progetto cinematografico: restituire una voce e una rappresentazione ai corpi martoriati e messi a tacere delle donne iraniane. Il risultato è un affresco film che dipinge rappresenta tre generazioni e tre diverse modalità di reazione all’oppressione di un regime che impedisce loro qualsiasi forma di libera espressione, compresa la danza, filo conduttore che lega le tre protagoniste e chiaro rimando alle reali rivolte, diffusesi capillarmente nel paese e dominate, in particolare, da una forma di protesta non violenta: la pubblicazione in rete, da parte delle donne iraniane, di video in cui, sorridenti, libere e con i capelli al vento, ballano sulle note di musiche occidentali.

La metafora pittorica non è casuale, dal momento che Saeivar usa la macchina da presa come un pennello, traducendo i conflitti socio-politici del suo paese in inquadrature dotate di una forte componente plastica ed espressiva. Un esempio è la sequenza di apertura, introdotta da un mezzo primo piano di Tarlan che si staglia su uno sfondo nero, l’inquadratura lentamente si allarga, aumentando la porzione di campo ripreso e svelando sempre più dettagli dell’ambientazione: la scuola di danza di Zara, la cui parete è nettamente divisa in due porzioni, una dipinta di nero e l’altra di bianco. L’inquadratura rimane fissa su Tarlan, mentre fuori campo si sentono le voci allegre e concitate delle ballerine, e Zara che si rivolge alla sua insegnante e madre adottiva tributandole l’esibizione in procinto di svolgersi. Poco dopo entra in campo Ghazal, che avvolge le braccia attorno al collo della nonna e che successivamente, accennando qualche passo, si sposta verso l’angolo opposto della stanza per accendere la radio e dare inizio alla performance. Il corpo in movimento di Ghazal è emblematico: danzando dal nero, in cui rimane confinata Tarlan, verso il candore latteo che fa da sfondo al balletto tradizionale persiano, la ragazza incarna la forza motrice delle nuove generazioni, che lottano al grido di “donna, vita, libertà” nella speranza di un futuro più luminoso. Se, come afferma Fraleigh, la danza coincide con il corpo stesso della ballerina, esattamente come il corpo si sovrappone e si assimila all’identità della persona, allora la danza non può che rappresentare un potenziale mezzo di liberazione, spesso nascosto e ridotto attraverso la sua marginalizzazione (Adair 1992, p. 25) o, come nel caso dell’Iran, attraverso la sua totale repressione, onde evitare alle donne una riappropriazione di sé e del perimetro della propria libertà. Il corpo femminile in movimento, attivo, libero, diviene «corpo pensante», consapevole del proprio diritto di partecipare alla vita sociale (ivi, p. 26).

La narrazione condotta da Saeivar, coadiuvato da Jafar Panahi nella stesura della sceneggiatura e nell’elaborazione del montaggio, tuttavia è calibrata e ben attenta a non scadere nella retorica e nel patetismo di un lieto fine forzato e quanto mai innaturale. Si tratta, piuttosto, di un racconto lucido e concreto, in cui la sparizione improvvisa di Zara assurge al ruolo di fulcro narrativo e ideologico. L’evidenza del destino riservato alla donna opprime lo spettatore sin delle prime sequenze, in cui campeggia, talvolta in primo piano, il volto tumefatto e illividito di Zara, e nelle quali non si fa mistero delle percosse che subisce sistematicamente. Ma sia la ribellione sociale e collettiva di Tarlan, sia quella individuale portata avanti da Zara, che si rifiuta categoricamente di rinunciare alla propria scuola di danza e mostra fieramente il proprio capo scoperto, pur venendo redarguita per questo da una sconosciuta in strada, hanno scarsa incisività. Entrambe restano schiacciate dagli ingranaggi di un regime repressivo in cui, come commenta il regista stesso nel catalogo di Venezia 81, «coloro che si sforzano di mantenere dignità̀ e umanità̀ vengono cancellati e la verità̀ deve essere distrutta». La prima inquadratura di Tarlan, in cui la protagonista si staglia sullo sfondo scuro con i capelli visibili ma raccolti in una treccia, così come i numerosi primi piani che stringono in una morsa il volto della donna, sempre incorniciato dal nero del velo, imprimono nitidamente sullo schermo il suo incrollabile coraggio, la sua lotta strenua, ma anche l’impossibilità di affidarsi al corso della giustizia e la vanità delle sue lotte sindacali.

Un barlume di speranza, tuttavia, c’è e brilla nella sequenza finale della danza di Ghazal, che la macchina da presa segue con movimenti ampi e fluidi, permettendo allo spettatore di assumerne la prospettiva e lo sguardo, invitandolo a seguire il nuovo movimento di protesta. È questo, infatti, il rinnovato centro propulsivo della rivoluzione: la danza, strumento politico delle donne iraniane, ma anche – e forse prescelto proprio per questo – mezzo di riconquista del proprio spazio e della propria individualità. Le donne ballano per costruirsi uno spazio vitale soggettivo, un proprio territorio di espressione e di affermazione (Irigaray 1989, p. 132), un luogo in cui liberare il loro corpo e la loro sessualità negata e repressa dalle catene dell’oppressione. Attraverso i gesti e i passi armonici, il corpo parla, si esprime, sprigiona la propria sensualità e afferma il suo ruolo attivo (McRobbie; Adair). E proprio questo sembra auspicare Saeivar, scegliendo di pedinare il corpo in movimento di Ghazal, quasi a volerla accompagnare nella sua ricostruzione e ricostituzione, mentre, dinanzi a lei, si aprono le porte del futuro. 

Riferimenti bibliografici
C. Adair, Women and Dance. Sylphs and Sirens, Bloomsbury Publishing, New York 1992.
L. Irigaray, The gesture in psychoanalysis, in Between Feminism and Psychoanalysis, a cura di T. Brennan, Routledge, Londra 1989.
A. McRobbie, Dance narratives and fantasies of achievement, in Meaning in Motion, a cura di J. Desmond, Duke University Press, Duhram 1997.

The Witness (Shahed). Regia: Nader Saeivar; sceneggiatura: Jafar Panahi, Nader Saeivar; fotografia: Rouzbeh Raiga; montaggio: Jafar Panahi; musica: Karwan Marouf; interpreti: Maryam Bobani, Nader Naderpour, Hana Kamkar, Abbas Imani, Ghazal Shojaei, Fahrid Eshaghi; produzione: ArtHood Films, Golden Girls Films, Sky Films; origine: Germania, Austria; durata: 100′; anno: 2024.

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