Una piscina abbandonata in cui tutto è permesso: ballare, roteare, allungarsi e contorcersi in ripetizione, sciogliendo le energie corporee accumulate durante la durata del film e, in generale, durante i gesti normativi e programmatici della giornata, quelli orientati verso una finalità e uno scopo ultimo. Tutti i membri del collettivo, tutti i registi di The Stimming Pool condividono un obiettivo comune: trovare un posto dove essere liberi di stimolarsi, senza essere inibiti da test e da restrizioni motorie e linguistiche. Questo posto è lo Stimming Pool.
Il film sperimentale del Neurocultures Collective, presentato nella sezione Concorso Discoveries al 65° Festival dei Popoli, è l’esito finale di un progetto transmediale che, servendosi di più dispositivi audiovisivi, si è sviluppato in diversi laboratori e workshop sperimentali, installazioni, saggi e videosaggi. Il collettivo coinvolge un gruppo di artisti neurodiversi (Georgia Kumari Bradburn, Sam Chown Ahern, Benjamin Brown, Lucy Walker and Robin Elliott-Knowle), guidati dagli studiosi Steven Eastwood e Janet Harbord, all’interno del progetto di ricerca “Autism Through Cinema” che ha come sua sede l’università Queen Mary di Londra. Di conseguenza, per comprendere a fondo le intenzioni e la portata rivoluzionaria di un film come The Stimming Pool è necessario fare un passo indietro e analizzare le intuizioni a monte del progetto, intuizioni che ritroviamo concentrate nel lungometraggio.
Il progetto indaga le relazioni tra il pensiero neurodivergente e il dispositivo cinematografico, proponendo la sostituzione del paradigma patologico dell’autismo con quello di neurodiversità. Il termine neurodiversità, coniato dalla sociologa neurodivergente Judy Singer, non intende prendere il posto delle diagnosi cliniche, ma indicare l’esistenza di molteplici modalità di esperienza e interazione con il mondo per le quali ogni individuo ha diritto ad essere compreso nelle proprie specificità neuropsicologiche.
L’intento è quello di capovolgere le descrizioni “tradizionali” dell’autismo, quelle generate attraverso l’osservazione esterna della condizione neurodivergente, a favore di un movimento di autodefinizione degli individui e delle comunità autistiche. L’ultima sequenza del film, citata in apertura, è un esempio unico di “de-neurotipizzazione” del linguaggio cinematografico: l’esplosione gestuale è sostenuta da ripetuti e circolari movimenti di macchina la quale, quasi sprofondando al di sotto del pavimento della piscina, per poi risalire velocemente, crea vorticose riprese aeree alternate a riprese rasoterra.
È la macchina da presa a diventare “autistica”, a fare l’esperienza dello stimming: il termine, abbreviazione di self-stimulatory behavior, è una pratica di auto-stimolazione, comune all’esperienza neurodivergente, che si riferisce a comportamenti ripetitivi e ricorrenti (il dondolio, la rotazione, la ripetizione verbale) adottati come meccanismo di piacevole autoregolamentazione in contesti iper-stimolanti. Infatti, a questi “insoliti” movimenti di macchina, si accompagnano gli affanni, i sospiri, o meglio i gemiti di piacere dei protagonisti, intenti nella disarticolazione incontrollata del loro corpo. Secondo gli studiosi coinvolti, il concetto di stim è interno all’origine dell’immagine in movimento che, fin dalle sue origini, “gode” dell’ossessione alla ripetizione: sono i primi dispositivi per immagini in movimento ad introdurre il concetto di stim o azione ripetuta, come ad esempio lo zootropio.
La sequenza, dunque, non è solo occasione di una virtuosità visuale, ma piuttosto una messa in questione dei dogmi delle forme e delle narrazioni del cinema stesso che, a parere dei membri del collettivo, soprattutto con l’avvento del film sonoro, offusca con la supremazia significante della parola il libero gioco della salienza gestuale. Il corpo messo in scena è quasi sempre normativizzato, bloccato nella fissità di un movimento tracciato dalle aspettative del “discorso”, dalle attese spazio-temporali e relazionali del fruitore, in cui gesti a vuoto, particolari espressioni del viso e esitazioni del parlato non più trovano spazio. Il cinema muto, e rari casi di quello sonoro, furono capaci di veicolare una forma espressiva tramite l’uso di un “linguaggio del corpo”: ne sono un esempio autori come Charlie Chaplin, Buster Keaton e Jacques Tati (cfr. Eastwood, Evans, Gaigg, Habord, Milton 2022).
Il tentativo di destituzione di una forma cinematografica normativa inizia con alcuni eventi laboratoriali, come il workshop Screen Dynamics tenutosi alla Queen Mary University nel dicembre 2019, in cui i visitatori potettero cimentarsi nell’osservazione autistica del mondo. Ciò mediante l’attraversamento di cinque “stazioni” costruite ad hoc per decostruire le norme rappresentative di un cinema normotipico, aprendosi invece a un cine-sguardo neurodiverso: nel lungometraggio assistiamo alla messa in atto di alcune di queste, come la Eye-Tracking station, la Reframing Station, la Event Boundaries station. Si pensi alla prima parte del film in cui Sam è sottoposta a un test di eye-tracking.
Il tracciamento oculare della protagonista, attraverso un passaggio dallo schermo alle situazioni di vita reale, ci fa “vedere” con i suoi occhi: seguiamo così la piroettante attenzione che Sam pone verso i minimi dettagli dei contesti lavorativi, urbani e boschivi che le vengono proposti in delle clip. In questo senso, si comprendono le funzioni della stazione Event Boundaries, cioè l’importanza che la capacità attentiva neurodiversa dà ai micro-eventi (dettagli periferici, movimenti delle comparse sullo sfondo, porte che si chiudono), rivelando elementi nascosti e non intenzionalmente messi a fuoco che esistono “dietro” o “accanto” quelle di solito considerate le aree centrali della narrazione di un film.
Nel posizionamento della macchina da presa e nel lavoro di postproduzione, come la fase di montaggio – alla quale i membri del neurocollettivo partecipano attivamente sotto lo sguardo professionale di Sergio Vega Borrego – emerge evidentemente una rielaborazione dello sguardo normativo: ingrandire o ripetere in loop una parte delle inquadrature, remixare le tracce audio rendendole più autism friendly, sostituire il primo piano a campi lunghi e totali. Pertanto, ogni sequenza del film costruisce una vera e propria cine-fenomenologia dello sguardo autistico che ci restituisce un mondo mediato da una macchina da presa neurodiversa.
Come suggeriscono gli autori nel Q&A successivo alla proiezione, The Stimming Pool è un manifesto, una forma che auspichiamo si diffonda al fine di frenare la normativizzazione del linguaggio cinematografico in rigidi modelli di produzione: l’irrigidimento, precludendo l’apertura verso un cinema diversificato e immaginativo, impedisce la rappresentazione, o meglio, l’assimilazione della prospettiva neurodiversa. Il nostro desiderio è un cinema che non guardi più al soggetto autistico come ad un esotico altro da rappresentare stereotipicamente dal di fuori, utilizzato spesso come espediente narrativo per una categoria deviata rispetto a una normalità idealizzata – a proposito sono straordinarie le sequenze in cui i ragazzi vengono “misurati”, analizzati e ispezionati da tre medici in una vecchia fabbrica in rovina. Bensì un cinema in cui «l’autismo non [sia] il soggetto del film, ma piuttosto il metodo che il film adotta per vedere» (Eastwood, Evans, Gaigg, Habord, Milton 2022, p. 14).
Riferimenti bibliografici
S. Eastwood, B. Evans, S. Gaigg, J. Harbord, D. Milton (2022): Autism through cinema: co-creation and the unmaking of knowledge, in “International Journal of Qualitative Studies in Education” 2022.
The Stimming Pool. Regia, sceneggiatura: Benjamin Brown, Georgia Bradburn, Sam Chown-Ahern, Robin Elliott-Knowles, Lucy Walker, Steven Eastwood; fotografia: Gregory Oke; montaggio: Sergio Vego Borrego; musiche: Thomas Haines; interpreti: The Neurocultures Collective; produzione: Chloe White (Whalebone Films), Steven Eastwood; distribuzione: Dartmouth Films; origine: United Kingdom; durata: 70’; anno: 2024.