“Una voce traccia la memoria delle immagini. Come si segue la voce, le immagini vengono richiamate”. Comincia con questo invito, una voce nel nero più profondo, il film di Kim Moo-young, The Sense of Violence (2024), in concorso alla XVIII edizione di Archivio Aperto a Bologna. L’opera si fonda in larga parte su materiale d’archivio del Novecento legato alla propaganda anticomunista del regime sudcoreano di Park Chung-hee. Attraverso queste fonti – cui si affiancano anche riprese originali – Moo-young mette in evidenza le strategie di ingerenza ideologica mirate a contrastare le istanze politiche non solo degli ex connazionali del Nord, ma dell’intero mondo comunista. Il suo intento è chiaro: ribadire che il cinema del suo Paese, la Corea del Sud degli anni Settanta-Ottanta, è un cinema di violenza, fatto con violenza. Il controllo del governo di Park Chung-hee sull’industria cinematografica si intensifica, infatti, a partire dagli anni settanta con la creazione della Korean Motion Picture Promotion Corporation, dove vengono prodotti melodrammi e film di spionaggio dalla trama estremamente semplice e didascalica, attraversati da un meccanismo di antagonismo tra le parti pronto ad esaltare l’eroe sudcoreano – e talvolta l’alleato statunitense – e a screditare la perfida spia del nord.

Parallelamente, da Seoul a Busan, il dissenso che si accende viene prontamente represso e le piazze si trasformano in un palcoscenico di ribellione, rievocando i ricordi ancora vividi della guerra. “Anche le ondate di resistenza più intense si infrangono velocemente”, recita la voce nel film. “Quando le onde si assestano, il mare si calma come se nulla fosse accaduto”. Perciò la propaganda è necessaria anche per insinuarsi nella memoria del popolo. Creare un’immagine per creare un’ideologia. Creare un’immagine, creare una memoria. The Sense of Violence sottolinea quanto la propaganda di Park Chung-hee abbia fatto leva sulle preoccupazioni dei sudcoreani e sui suoi traumi recenti – compresa la separazione politica della penisola al termine della Seconda guerra mondiale. Ma il punto non è soltanto ricordare la violenza della propaganda accuratamente predisposta dal governo, ma anche – e forse soprattutto – mettere in luce come il cinema sudcoreano di quegli anni sia un cinema di potere, che utilizza cioè strumenti e forme concettualmente e visivamente coercitivi.

A porsi in assonanza rispetto alla tesi del regime sono i filmati recuperati da Moo-young. Immagini imperfette, deteriorate, frammentarie, in cui i volti, più si avvicinano, più si dissolvono nel rumore, e con essi la memoria che inevitabilmente sfuma. Questa dialettica diventa una lotta tra cinema ufficiale – sostenuto da un grande potere politico-economico –  e resistenza popolare, armata di cineprese 16mm e videoregistratori VHS. Per contrastare la consunzione di questi materiali e impedirne la dissoluzione come memorie liminali, si rivela cruciale il riuso delle immagini d’archivio inteso come processo di raccolta sistematica, e in questo contesto la concezione di Moo-young del film come saggio e del regista come studioso assume un valore fondamentale.

Per il cineasta sudcoreano, le onde della memoria del suo popolo sono fatte di “immagini degenerate”. “Rendo vivida la mia memoria con immagini che i dati ricordano”, sussurra la voce narrante del film. È l’archivio stesso a infrangersi contro i ricordi di un popolo. Alcune immagini rievocano un passato che è stato mistificato, altre contribuiscono a evidenziare questo inganno. Attraverso la stratificazione di questi diversi piani dell’immagine,The Sense of Violence ripercorre una storia del cinema sudcoreano come se si immergesse nell’inconscio del Paese. I traumi e le immagini non possono sparire completamente. Presto o tardi, riemergono.

The Sense of Violence. Regia: Mooyoung Kim; sceneggiatura: Mooyoung Kim; fotografia: Mooyoung Kim; montaggio: Mooyoung Kim; musica: Worramet Matutamtada; produzione e distribuzione: Void space; durata: 114′; anno: 2024.

Tags     Archivio Aperto
Share