Ci sono occasioni in cui un regista non può non chiedersi che cosa racconta il suo film, come lo racconta, per chi lo racconta e perché lo racconta. È senz’altro il caso di The Seed of the Sacred Fig, l’ultimo film del regista iraniano Mohammad Rasoulof. Rasoulof appartiene alla folta schiera di registi iraniani perseguitati dal regime al potere nel suo paese: questo film è stato girato in clandestinità. D’altronde, una buona parte del cinema iraniano è diventata clandestina a causa della censura. Oserei dire che la quasi totalità del cinema iraniano che arriva a uno spettatore occidentale è ormai fatta da un cinema clandestino, se si escludono rare eccezioni o le opere dei registi che lavorano all’estero. Si coglie subito, allora, l’urgenza etica e politica che spinge questi registi non solo a continuare a fare film, ma anche a interrogarsi sul senso del loro lavoro; The Seed of the Sacred Fig presenta questa esigenza in maniera esemplare.
All’apparenza la trama del film è semplice, quasi banale. Iman, un funzionario delle corti rivoluzionarie, lo strumento giudiziario di cui il regime si è dotato per reprimere il dissenso, riceve una promozione a procuratore; la promozione gli apre la strada all’ambita posizione di giudice. Ciò significa un significativo avanzamento sociale ed economico per lui e la moglie Najmeh e per le figlie Rezvan e Sana. Comporta però un maggiore controllo: più attenzione alla scelta delle frequentazioni, un rispetto più rigoroso delle norme che regolano l’abbigliamento e l’aspetto delle donne in pubblico. La famiglia di un giudice deve essere irreprensibile. La promozione fa apparire pure i rischi collegati a questa professione: Iman riceve dal suo superiore una pistola per autodifesa e l’arma diventa l’oggetto di contraddittori sentimenti di eccitazione e paura. La promozione fa emergere anche le contraddizioni all’interno della famiglia: se Najmeh si identifica completamente con i successi del marito, le figlie, una ventenne e l’altra adolescente, desiderano la libertà.
Nel frattempo, nelle vie di Teheran, la capitale, dove vivono Iman e la sua famiglia, scoppiano le proteste per l’uccisione di Mahsa Amini da parte degli agenti della “polizia morale”. Le donne si tolgono pubblicamente il velo; gli slogan chiedono la fine del regime. Il lavoro nelle corti rivoluzionarie diventa estenuante: Iman si sente sotto pressione e risente psicologicamente dell’ingiunzione a chiedere condanne pesanti per gli arrestati dopo processi sommari. Le figlie sono spaventate, ma stanno dalla parte dei compagni che protestano: la migliore amica di Rezvan, finita in mezzo agli scontri tra studenti e polizia, ha perso un occhio ed è stata arrestata. Najmeh teme di vedere la famiglia e i suoi sogni andare in pezzi. Tutto precipita quando scompare la pistola di Iman, il quale, dopo aver pensato a un’improbabile incursione di oppositori nel suo appartamento, comincia a sospettare della moglie e delle figlie in un crescendo di paranoia e violenza, che prelude al tragico finale del film. D’altronde, se non dovesse ritrovare l’arma, Iman rischierebbe l’arresto e la sua carriera sarebbe finita.
Fin qui abbiamo raccontato la storia del film: una storia di ordinaria follia sotto un regime totalitario. Ma qui si tratta di capire come, perché e per chi questa storia è stata raccontata. Rasoulof crea in effetti un secondo film che contiene il film che abbiamo appena raccontato. Questo film parla di come la fede da sentimento religioso si è trasformata in ideologia politica ed è diventata infine strumento di repressione. Iman, il cui nome significa appunto fede, incarna questa trasformazione: la sua storia, i suoi rapporti con la moglie e le figlie, il destino tragico a cui lo condurrà l’ossessione per la perdita della pistola, sono un’allegoria della crisi irreversibile in cui è entrato il regime teocratico dei mullah. Non è solo l’allegoria della crisi del potere: è la crisi della macchina allegorica che sta a fondamento di ogni teocrazia e che consente ai suoi aguzzini di scambiare la brutalità per obbedienza alle leggi di Dio, e di attuare e indurre ogni sorta di dissimulazione della realtà delle cose. La rottura avviene quando la realtà si libera dalle catene dell’allegoria e vuole riprendersi il suo posto alla guida della vita. Allora il potere mette in campo tutti i suoi poteri evocativi, seduttivi e infine repressivi per evitare o almeno rimandare la fine.
Fin qui abbiamo detto cosa racconta il film e come lo racconta; ora dobbiamo dire perché e per chi lo racconta. La cosa più impressionante del film sono i video originali delle manifestazioni del 2022, che il regista recupera e monta come se fossero video che Rezvan e Sana trovano su internet con i loro telefoni. Non sono solo i video insieme gioiosi e arrabbiati delle donne che si tolgono il video, dei manifestanti che gridano i loro slogan contro il regime. Sono anche e soprattutto i video agghiaccianti della ferocia fredda e indiscriminata con cui queste proteste sono state soffocate. Vediamo corpi insanguinati a terra; vediamo il gesto di sparare anche a chi si è solo permesso di riprendere una scena con il telefono; vediamo sparare non solo per fermare la protesta o magari per uccidere, ma con il preciso intento di sfigurare i volti e mutilare i corpi. Il dibattito sull’opportunità, o viceversa sul dovere etico, di mostrare la violenza va avanti dai tempi di André Bazin e proseguirà ancora. Non finiremo mai di chiederci se debba prevalere il timore di indurre assuefazione o l’esigenza di denunciare quello che sta accadendo. Eppure queste sono immagini che non avevamo mai visto prima e che dovevamo vedere, per non cedere all’illusione di credere che non sia in atto la repressione brutale di un movimento che forse abbiamo già dimenticato, perso nel flusso televisivo.
Nel film, di fronte al montare delle proteste, Najmeh all’inizio non sa cosa pensare: la televisione di regime le restituisce un’immagine completamente falsata della realtà. Le figlie le mostrano allora i video delle violenze. La madre chiede loro dove hanno trovato quelle immagini: “Alla televisione”, è la risposta. Non è la televisione, è internet. Ma è anche la metafora della rivoluzione dello sguardo che da sempre più parti viene chiesta ai media se vogliono essere uno strumento di liberazione.
The Seed of the Sacred Fig. Regia: Mohammad Rasoulof; sceneggiatura: Mohammad Rasoulof; fotografia: Pooyan Aghababaei; montaggio: Andrew Bird; interpreti: Soheila Golestani, Missagh Zareh, Mahsa Rostami, Setareh Maleki, Niousha Akhshi, Amineh Arani; produzione: Run Way Pictures, Parallel45, Arte France Cinéma; origine: Iran, Germania, Francia; durata: 168′; anno: 2024.