Scott Z. Burns sta pian piano diventando uno degli sceneggiatori chiave per comprendere il cinema americano contemporaneo. Partendo da The Bourne Ultimatum di Paul Greengrass – ultimo straordinario capitolo della saga di Jason Bourne –, per arrivare alla duratura collaborazione con Steven Soderbergh – in The Informant! (2009), Contagion (2011), Effetti collaterali (2013) e Panama Papers (2019) – che ha contribuito in maniera determinante a riscrivere i modelli di messa in scena del cosiddetto cinema politico nel XXI secolo. Ecco allora: non si può iniziare a ragionare su questo The Report senza in qualche modo inserirlo nell’universo immaginario di Soderbergh (qui presente in veste di produttore), innanzitutto perché la regia di Burns ne sembra evidentemente debitrice. Ma andiamo con ordine.

The Report – in realtà “The Torture Report”, con la parola centrale cancellata, redatta, proprio come in Redactet (2007) di De Palma – si presenta come una sorta di controcampo interno alla lunga stagione del war movie post 11 settembre. Un genere intimante mutato rispetto al passato – partendo proprio dal film di De Palma per arrivare al dittico The Hurt Locker (2008)/Zero Dark Thirty (2012) di Kathryn Bigelow, senza dimenticare ovviamente Nessuna verità (2008) di Ridley Scott e Green Zone (2010) di Paul Greengrass –, perché la guerra oggi configurata è diventata sempre più  quella “delle immagini” per dirla con W.J.T. Mitchell. La radicale mediatizzazione degli eventi, infatti, produce nuovi campi di percezione che sostituiscono definitivamente il tradizionale campo di battaglia.

Pertanto: se Zero Dark Thirty si incunea nei nuovi scenari della guerra al terrore e nel “buio” della tortura come ambiguo campo di indagine per arrivare al risultato finale (la cattura di Bin Laden); nel caso di The Report è il fronte interno ad essere posto sotto la lente di ingrandimento. Quindi gli atti decisionali a monte, le informazioni come (fuori) campo etico di riferimento, i legami tra il potere esecutivo e i servizi segreti come limite democratico da sondare: dal war movie si passa quindi al suo controcampo, al cinema civile che trova una forte referenza nella New Hollywood e nel maestro indiscusso Alan J. Pakula.

Di cosa si sta parlando? Di una “storia vera”. Quella del giovane assistente Daniel Jones incaricato dalla veterana senatrice Dianne Feinstein di indagare per conto del Senato degli Stati Uniti sui protocolli di detenzione e interrogazione della Cia nei confronti dei (presunti) terroristi prigionieri nel post 11 settembre. Inizia nel 2007 il Torture Report di Daniel che ridiscute le cosiddette “tecniche potenziate di interrogatorio” alla luce del diritto internazionale umanitario. Il film procede narrativamente per blocchi di indagine alternati (dal 2007 al 2014) con le immagini rimosse del “programma” sui detenuti che sopraggiungono a contestualizzare l’inchiesta nel presente. Burns procede con stile asciutto e rigoroso, senza nessun barocchismo visivo, descrivendo le azioni di un uomo qualunque posto in una situazione straordinaria.

Nella prima sequenza del film un avvocato chiama Daniel “spettatore in cerca di verità”: come sempre nel miglior cinema americano l’incipit ci consegna le chiavi interpretative dell’intero film. Daniel dice di essere stato uno spettatore impotente dell’11 settembre e di aver deciso di aiutare il suo Paese proprio quel giorno: il trauma per eccellenza del XXI secolo diventa il motore fuori campo delle vicende private e pubbliche del film.

Quando però l’individuo viene posto nella condizione di ricercare la verità dietro le informazioni ufficiali diventa uno “spettatore attivo”: la piccola stanza/bunker totalmente isolata all’esterno, dove Daniel viene confinato per le sue indagini, non è solo una necessaria precauzione di sicurezza, ma diventa simbolicamente il luogo al di fuori dall’involucro mediale contemporaneo che concede il tempo necessario per operare scarti di pensiero. Il tempo della riflessione che produce uno sguardo consapevole sul mondo. Adam Driver è straordinariamente funzionale a questo progetto innervando il personaggio della sua consueta recitazione catatonica capace però di minime tensioni emotive che fanno vibrare le corde emotive dello spettatore. Una sorta di automa bressoniano che soprattutto Jim Jarmusch in Paterson ha saputo esaltare.

Non c’è una stampante e non c’è carta in quella stanza: “Per noi la carta è un mezzo per finire nei guai”, gli dice l’agente della Cia incaricato di sorvegliarlo. Daniel risponde: “Prima o poi la carta servirà perché per noi la carta è il mezzo per garantire il rispetto delle leggi”. Eccola l’utopia del cinema civile che da Mr. Smith va a Washington (1939) di Frank Capra porta a Tutti gli uomini del presidente (1976) di Pakula, arrivando a The Post (2017) di Spielberg e a Panama Papers di Soderbergh. Quindi attraversando epoche e stili di Hollywood: il cinema si interroga ancora oggi sui limiti della democrazia, sulla gestione del potere e sul ruolo della stampa, facendo diventare tali questioni immaginario condiviso.

Insomma, Burns e Soderbergh procedono per sottrazione in un impeto neo-rosselliniano che concepisca ancora il cinema del XXI secolo – colto tra Netflix e Prime Video, sondando ogni potenzialità delle nuove piattaforme on line di distribuzione – come persistente spazio del pensiero. The Report è un film “politico” non tanto per quel che dice, ma per come decide di dirlo.

The Report. Regia: Scott Z. Burns; sceneggiatura: Scott Z. Burns; fotografia: Eigil Bryld; montaggio: Greg O’Bryant; musiche: David Wingo; interpreti: Adam Driver, Annette Bening, Jon Hamm, Jennifer Morrison, Tim Blake Nelson, Matthew Rhys, Ted Levine, Michael Carlyle Hall, Maura Tierney, Sarah Goldberg, Lucas Dixon, Dominic Fumusa, Scott Shepherd, Noah Bean, Douglas Hodge, Corey Stoll, T. Ryder Smith, Fajer Al-Kaisi, Linda Powell, Benjamin McKenzie, Carlos Gómez, Joseph Siravo, Guy Boyd, Victor Slezak; produzione: Topic Studios, Margin of Error, Unbranded Pictures, Vice Media; distribuzione: Prime Video; origine: Stati Uniti d’America; durata: 118′.

Share