La prima volta che il filosofo Johann Augustus Eberhard entrò in un panorama, agli albori dell’Ottocento, lo descrisse come un sogno da cui è impossibile risvegliarsi, imprigionato, com’era, nel recinto di un’immagine avvolgente e inglobante, che non permetteva alcuna forma di fuga né di distanza. Questa esperienza aurorale dell’immersività sembra rivivere in diverse istallazioni viste nell’ultima edizione di Venice Virtual Reality, dedicate, non a caso, agli stati alterati della coscienza: dall’allucinazione indotta da LSD dei test militari in Porton Down di Callum Cooper alle immagini sconnesse di una memoria affetta da Alzheimer in Cosmos Within Us di Tupac Martir; dalla rêverie creatrice dell’artista giapponese Miwa Komatsu in Inori, da lei creato insieme a Szu-Ming Liu, alla veggenza mistica di Ex Anima Experience di Pierre Zandrowicz e Bartabas. Ma è soprattutto The Key di Celine Tricart ad abbracciare in modo più coerente il tema del sogno, concepito come percorso privilegiato per comprendere in prima persona, tra le pieghe fantasmagoriche della reminiscenza, le catastrofi del presente.
Quando la realtà virtuale racconta il sogno, sembra operare un’analisi introspettiva della sua stessa identità mediale, centrata sul senso di presenza che emana un’immagine a 360°, esperita in modo multimodale da uno spettatore definitivamente interattivo il cui corpo diventa l’unica fonte di selezione del visibile. Analizzare questo genere di istallazioni rappresenta di conseguenza un’operazione di una complessità analoga al resoconto delle visioni notturne, il cui racconto non può limitarsi al contenuto di immagini e suoni, ma deve estendersi all’insieme di gesti e azioni con cui rispondiamo ad essi. In questa direzione, non è in alcun modo possibile tralasciare, nell’analisi, gli interstizi che precedono e seguono il tempo in cui si indossa il visore, parte integrante anch’essi di un unico testo che ingloba corpi e immagini.
All’inizio di The Key, siamo accolti in un’anticamera da una performer che ci invita a prendere in mano una chiave, da non dimenticare mai, per aiutarla ad accedere alla sua infanzia dimenticata, nascosta dentro una serie di sogni come un segreto sommerso. Solo ora possiamo indossare il visore, e muoverci liberamente tra le mura immaginarie di una casa sospesa tra le nuvole, parte di una città celeste e sconfinata visibile da ogni finestra. Al suo interno, sono presenti tre sfere animate e incandescenti — di chiara ispirazione myazakiana — con cui è possibile interagire e che si è invitati a custodire da una serie di pericoli che immediatamente si palesano: un’esplosione distrugge le mura e disperde ogni sfera nell’etere, mentre precipitiamo in scenari infernali per ritrovarci a marciare in una folla di ominidi dalle maschere bianche, verso un mostruoso leviatano.
È all’interno di queste visioni che si rivela, come in un risveglio improvviso segnato dal passaggio dall’animazione in CGI all’immagine fotografica, il passato traumatico obnubilato nel sogno: quella di una casa distrutta in Medio Oriente, della perdita definitiva dei propri cari, della necessità di emigrare verso un porto sicuro, dell’assenza di accoglienza delle terre promesse. La chiave che custodiamo fino alla fine si rivelerà infatti essere quella delle abitazioni d’origine che molti rifugiati continuano a custodire nel corso della diaspora. Essa costituisce così, allo stesso modo, l’unica traccia di realtà fisica che permane nel sogno VR e il solo residuo onirico che ci portiamo dietro al risveglio, una volta rimosso il visore.
Già Carne y Arena (2017) di Alejandro Gonzalez Iñarritu, tuttora la più nota delle istallazioni in VR, si era imposta come “macchina dell’empatia” per la sua capacità di assorbire gli utenti nella pelle dei migranti che oltrepassano, fra infiniti pericoli, il confine tra Stati Uniti e Messico. The Key di Celine Tricart, la cui arte immersiva si era già imposta con il taglio documentario e politicamente impegnato di The Sun Ladies (2018), persegue nella stessa linea ma la occulta, sorprendentemente, nelle fantasmagorie animate del sogno, dove il senso di perdita, spaesamento e terrore che caratterizza le catastrofi contemporanee riecheggia egualmente.
In questa direzione, l’istallazione aiuta a riflettere tanto sulla sovrapposizione tra immaginazione interattiva e realtà propriocettiva propria del medium immersivo, quanto sulla possibilità di reminiscenza del trauma data dall’inarrestabile processo di divenire altro attivato dal sogno. La cui caratteristica principale, e comune alle istallazioni virtuali, va ricercata, come ha notato Pietro Montani, nel potere performativo e “disautomatizzante” dell’immaginazione, «costruzione di uno spazio politico esemplare grazie a un incrocio tra mondo reale e mondo simulato».
In questa direzione, immergersi nelle pieghe del sogno — e, contestualmente, nell’ambiente mediale che ne costituisce la forma tecnologicamente riproducibile — diventa, in senso benjaminiano, la via maestra per raggiungere la consapevolezza del risveglio, dove la rammemorazione ancora vivace delle immagini oniriche permette di leggere distintamente il senso del passato e del presente. Non a caso, era stato proprio Walter Benjamin, nei frammenti dei Passages, a intravedere nei primi spettacoli immersivi — panorami, diorami, musei delle cere — gli esempi di dimore oniriche della collettività, nelle cui fantasmagorie il metodo dialettico è chiamato a sprofondare perché possa emergere, in controtendenza, una concreta coscienza storica.
Nelle nuove dimore oniriche, le sale della realtà virtuale dove si esibisce un medium ancora nascente, si crea così un nuovo rapporto performativo tra evasione e impegno, immaginazione e interpretazione. L’istallazione di Celine Tricart indica così una strada innovativa eppure antica per le istallazioni immersive che si pongano il problema di un’azione politica e testimoniale sul presente: quella di una macchina dell’empatia stregata, sospesa fra le nuvole.