In quali e quanti modi finiscono gli organismi, le specie, le culture? Le catastrofi possono essere improvvise e arrivare da fuori, come è successo ai dinosauri con il meteorite e alle civiltà precolombiane con i microbi dei soldati spagnoli. Ma la fine può arrivare in modo endogeno perché una specie mostra di essere un vicolo cieco dell’evoluzione oppure una civiltà ha toccato l’apice, ha fatto tutto quello che poteva fare e non le resta che decadere. Quanto ci mette una civiltà a decadere? E cosa succede durante questo tempo? Forse molte cose, ma niente di vitale, nessuna vera creazione o spinta in avanti o espansione.
La decadenza è una fase collocata tra lo sviluppo e la morte. Un corpo – di qualsiasi natura: animale, umano, un’istituzione, una società – decade quando smette di crescere e si chiude a riccio su se stesso per rimanere tale e quale, aspettando la fine. L’Occidente è decadente da almeno una quarantina d’anni, così la pensa Ross Douthat, editorialista del New York Times e uno dei repubblicani più imbarazzati dall’attuale presidente degli Stati Uniti, che ha appena pubblicato The Decadent Society. Nelle sue pagine c’è un esempio cinematografico illuminante: il ragazzo di Ritorno al futuro viaggia nel tempo dal 1985 – anno in cui il film uscì nelle sale – al 1955 dove incontra i futuri genitori che hanno più o meno la sua età. Il film descrive lo stupore del protagonista davanti ai giovani di trent’anni prima, troppo diversi per le abitudini, i divertimenti, i loro dispositivi tecnologici. Sono passati trentacinque anni da quel film: se la macchina del tempo ci trasportasse nel 1985, proveremmo lo stesso spaesamento? No, perché il nostro stile di vita è rimasto grosso modo lo stesso (Douthat 2020, p. 36). A parte internet e i telefonini, le cose in Occidente non sono cambiate molto negli ultimi decenni. La nostra decadenza si chiama stagnazione.
La stagnazione ha molti aspetti, è economica, tecnologica, sociale, culturale. La sclerosi dell’azione politica, dopo i roaring years di Reagan, Thatcher e Helmut Kohl, ne è l’impronta più evidente (ivi, p. 67). Il rallentamento più drammatico riguarda però la crescita demografica. Sappiamo che in Italia ogni coppia ha in media 1,3 figli (un tasso di crescita minimo è raggiunto con 2,5) ma tutti i Paesi industrializzati lasciano le culle semivuote, anche i già prolificissimi Stati Uniti. Questo dato non è di per sé l’indice di un fallimento, è invece la prova di un benessere notevole e diffuso. Lo stato sociale dà delle garanzie che non rendono più necessari i figli per il sostentamento degli anziani genitori, e «la benedizione di una società ricca e consumistica fornisce una quantità sterminata di merci, servizi ed esperienze in cui fino ai quarantacinque anni vogliamo investire il nostro tempo, le nostre energie, i nostri soldi» (ivi, pp. 50-51).
Se non facciamo figli è perché, tutto sommato, le cose ci vanno bene, ed è molto difficile che qualche espediente (tasse sui celibi? “Incentivi alle famiglie”?) ci faccia cambiare idea. Ecco perché il sottotitolo del libro è Come siamo diventati le vittime del nostro successo. Vecchi, prosperi, sterili, diventiamo necessariamente più conservatori, prudenti nei sentimenti, piacevolmente torpidi, timorosi del cambiamento. Le nostre spinte in avanti hanno talvolta l’aspetto di movimenti frenetici ma rimangono sur place. Non ci sentiamo investiti di responsabilità epocali. Non rimane che vivere di rendita e spendere in modo accorto l’enorme capitale che nel corso dei secoli abbiamo predato in giro per il mondo e accumulato (ivi, p. 66).
Siccome conservare e tramandare in modo intatto è l’unica cosa che ci riesce bene, fa paura la prospettiva che ciò di cui ci siamo appropriati non vada alla nostra discendenza ma a quella degli immigrati. La paura dei populisti è comprensibilissima, in nessun modo – dice Douthat – riducibile al “razzismo” o alla intolleranza, ma è malriposta. È probabile che per un bel po’ di tempo i barbari non arriveranno (ivi, p. 155) e in fondo ci credono poco anche i nostri eroi che infatti si inquietano e sbraitano a condizione di essere appoltronati in poltrona, dentro appartamenti climatizzati, in città dove anche il vagabondaggio è reato.
La temuta bomba demografica nero-islamica non scoppierà perché già dalla seconda generazione il tasso di natalità degli immigrati si adegua alle striminzite cifre degli autoctoni. La paura è in buona parte autoinflitta e terapeutica perché aiuta a sopportare una condizione emotiva molto più spiacevole, la noia. Talvolta la semplice amministrazione di quello che si ha e si è non basta a rendere felici, per questa ragione cerchiamo di riscuoterci dal torpore inoculandoci idee tossiche, inventando invasioni e complotti mondiali.
Anche la sinistra ha le sue paure fantastiche, ad esempio i fascisti. È più che probabile che una società di vecchi come la nostra scivolerà verso forme morbide di autoritarismo, «con uno stato che fa di tutto per proteggerti fino all’età più avanzata, con un’economia che viene regolata in modo più stringente, con un’enfasi sulla identità nazionale come surrogato per l’allentarsi dei legami famigliari» (ivi, p. 65). Ma è impossibile rifare oggi l’effervescenza criminale del fascismo, per fortuna non ci sono abbastanza giovani. Ciononostante la paura del fascismo fa battere il cuore, è catartica e non scomparirà tanto presto.
Il virus letale che sta circolando in queste settimane è tutt’altro che una finzione ma anch’esso ci risarcisce della noia, ridà alla vita un po’ dell’incanto che aveva perduto: ci barrichiamo dentro i nostri bilocali come Aztechi sotto assedio, il carrello della spesa riempito all’inverosimile diventa una cornucopia, l’interruzione momentanea dei contatti ci permette di praticare il più autentico e spontaneo piacere dell’uomo occidentale, la solitudine.
Non tutti i pericoli, dunque, sono immaginari. Pure il riscaldamento globale è una realtà. I barbari non sono alle porte ma entro il 2100 potrebbero esserci due miliardi di africani – oggi sono ottocento milioni di meno – di cui una buona parte sarà costretta dalle condizioni climatiche a spostarsi verso nord cancellando di colpo le distinzioni giuridiche tra profughi, rifugiati e migranti economici alle quali siamo tanto affezionati. Se i leader populisti utilizzassero una piccola frazione del tempo che passano a lagnarsi dell’“invasione” per informarci sui problemi climatici renderebbero un servizio alla propria causa. Ma sia loro che noi tendiamo a screditare i pericoli che non hanno il prestigio della imprevedibilità e della sorpresa.
Il problema del clima è il risultato di «un sistema produttivo e di abitudini di vita radicate, di un preciso sviluppo tecnologico ed economico, di modelli di comportamento, che soltanto una civiltà vigorosa e non decadente sarebbe stata in grado di affrontare e risolvere prima che diventasse un pasticcio» (ivi, p. 202). È invece caratteristico delle civiltà prospere e fossilizzate preoccuparsi esclusivamente dei disastri improvvisi e “dietro l’angolo”, per quanto improbabili.
L’aumento globale della temperatura è forse il fattore capace di accelerare la decadenza e trascinare l’Occidente verso la sua fine. Ma se la vittoria della green economy impedirà al riscaldamento di avere effetti devastanti (6-7 gradi in più) e lo conterrà (soltanto 3 gradi) è possibile che riusciremo a tenerci il nostro benessere per un tempo indefinito. Nell’ipotesi fortunata il Nord del mondo riuscirà a sopravvivere per mezzo dell’aria condizionata, il bando delle energie fossili e sistemi informatici di controllo che sostituiscono la polizia e le mura delle città (ivi, p. 201). Questa prospettiva è interessante perché il significato della decadenza cambierebbe radicalmente: non più una tappa tra lo sviluppo e la morte ma una morte continuamente differita, una condizione stabile. L’Occidente diventerebbe una civiltà che non finisce di finire.
Dobbiamo accontentarci? Davvero non c’è nient’altro da fare? Esistono progetti politici che, invece di limitarsi a conservare quel che c’è, produrranno qualcosa di nuovo? Le proposte che Douthat fa per l’America ci appassionano meno di quelle che riguardano l’Unione europea. La più interessante è il suo progressivo mutamento in una federazione eurafricana. Grazie al cambiamento climatico e alla deriva dei continenti, l’Eurafrica sarà prima o poi un fatto. L’Unione europea, invece di subire questo processo naturale, deve imparare a dargli un significato politico. L’opera della Chiesa ha gettato le basi per un’intesa tra i due continenti e i suoi successi bastano a mostrare che gli abitanti dell’Africa non sono le cenerentole di un economicismo produttivistico a senso unico, oppure stravaganti teocratici e terroristi. È un sentiero che la politica africana aveva cercato timidamente di battere negli anni cinquanta.
Douthat ricorda l’uomo di stato senegalese Léopold Sédar Senghor (1906-2001), poeta e traduttore di Baudelaire, il cui antimperialismo si accompagnava alla volontà di stringere una solida alleanza tra il proprio Paese e l’Europa perché francesi ed ex-colonizzati continuassero a essere governati dalla stessa amministrazione. La proposta venne motivata con argomenti economici, storici e culturali (Senghor enfatizzava la complementarietà tra lingue europee, la cui sintassi è subordinativa e a forte reggenza, e lingue africane tendenzialmente paratattiche). Il progetto superava d’un balzo l’afronazionalismo coevo e anticipava «l’inevitabile riavvicinamento dell’Europa e delle sue colonie, la necessità di una sintesi tra Nord e Sud, cultura bianca e nera, […] una combinazione di Goethe e négritude» (ivi, p. 209).
Oggi il riaffacciarsi di questo progetto può apparire come una scelta faute de mieux davanti alla futura emergenza demografica, ma non è così. L’Eurafrica non deve essere un compromesso dettato dalla paura ma una autentica creazione, anche se non ex nihilo. Una civiltà può creare qualcosa di nuovo se è dialettica (ivi, p. 109), se le riesce di integrare spinte contrapposte in un equilibrio dinamico, se annoda flussi umani, linguistici ed economici divergenti. La globalizzazione sembra avere ridotto il Mediterraneo a uno specchio d’acqua periferico ma forse è attraverso un ripensamento del suo spazio che, almeno per noi europei, il corso della decadenza può essere rovesciato.
Ross Douthat, The Decadent Society: How We Became the Victims of Our Own Success, Avid Reader Press / Simon & Schuster, New York 2020.