Se pensiamo ai debutti più discussi e acclamati del cinema cinese più recente, da Kaili Blues (Bi Gan, 2015) a The Widowed Witch (Cai Chenjie, 2017) per arrivare a Crosscurrent (opera seconda di Yang Chao, 2016) e ad An Elephant Sitting Still (Hu Bo, 2018), notiamo come, in ciascuno di essi, sia ravvisabile un rapporto intrinseco con il sublime, l’elegiaco o il metafisico, precipuamente iscritto nelle realtà spaziali in cui le loro narrazioni sono calate (rispettivamente negli spazi forestali e naturali dei primi tre film, e in quello urbano dell’ultimo). In continuità con l’approccio estetico delle suddette opere si pone anche il debutto della regista Zheng Lu Xinyuan, The Cloud in Her Room, il cui mondo diegetico coincide con la dimensione onirico/fantasmatica e memoriale in cui versano i ricordi, le sensazioni e le percezioni della giovane protagonista, una volta giunta nei vasti ed immersivi spazi metropolitani della megalopoli di Guangzhou.

Il film, distribuito da Mubi, racconta la storia di Muzi, una giovane neo-laureata, che in occasione del Capodanno Cinese e in un momento di sfasamento esistenziale, ritorna nella sua città d’origine per ricongiungersi momentaneamente con gli affetti più cari e (possibilmente) ritrovare sé stessa nella nuova/vecchia realtà urbana. Ma nell’istante in cui giunge nella città natale, ad aspettarla resta solo uno spazio vuoto, una casa priva di qualsiasi presenza umana, in seguito al divorzio dei genitori (nella prima scena osserviamo la ragazza girovagare in un ambiente domestico vacuo, immersa nella vuotezza di un luogo casalingo dalle spoglie mura). In questo contesto, se nel corso della Festa di Primavera «non solo si ritorna fisicamente “a casa” ma si prevedono tutta una serie di […] rituali in cui si ritrova il calore e l’affetto dei propri cari e si riscoprono le proprie radici» (Comite, Colaiaco, 2021), a Muzi, oltre all’affetto famigliare, è negata anche la possibilità di celebrare i riti autoctoni, con la difficoltà conseguente di stabilire un contatto profondo con lo spazio, sia interno, sia esterno, della metropoli.

In virtù del recupero, da parte della protagonista, del rapporto con la circostante realtà urbana, Zheng mette in scena un racconto completamente dominato dal monocromatismo digitale in bianco e nero, in un tentativo, paradossale, di ri-scoperta dell’ambiente spaziale attraverso la perdita di referenzialità dell’immagine infografica. Se, infatti, per suo stesso statuto ontologico, è solo la pellicola (e la fotografia a colori) a restituire, con fedeltà, la realtà inquadrata dalla macchina da presa, in virtù del processo chimico che risiede alla sua base, qui, invece, è l’immagine digitale (e il bianco e nero) a configurarsi quale mezzo prediletto per indagare l’ambiente spaziale della metropoli consentendo, di conseguenza, alla giovane ragazza di (ri)trovare la propria soggettività in un contesto urbanistico perlopiù sfuggente. Tutto questo, allora, viene reso possibile dalla particolare natura intrinseca del racconto in questione: nel corso della narrazione, infatti, i ricordi di Muzi si sovrappongono alle sue esperienze reali, in un connubio tra elementi di matrice “finzionale” (memorie, percezioni, visioni oniriche degli spazi cittadini connotate da un eccesso di contrasto luminoso) appartenenti ad una dimensione fantasmatica, ed elementi “fenomenici” pienamente iscritti nella realtà urbana cinese.

Dal momento che Zheng, in The Cloud in Her Room, pone in essere una narrazione semi-realistica, dove personaggi, ambienti e scenari narrativi non seguono necessariamente dei rapporti di verosimiglianza, né tanto meno rispondono a quei codici epistemici alla base dei processi di figurazione della realtà, ella può, allora, servirsi di un’immagine a bassissima referenzialità per esplorare il mondo diegetico della protagonista, completamente immersa nella percezione onirica degli spazi urbani (un approccio estetico che ricorda quello adottato da Gakuryu Ishii in That’s It (2015) dove ai segmenti onirici viene associato il colore [maggiore referenza] mentre le sequenze reali vengono raccontate attraverso l’immagine digitale in bianco e nero, con perdita referenziale).

Relativamente al contesto filmico/industriale in cui The Cloud in Her Room si iscrive, se un film come The Widowed Witch si serve dei codici del realismo magico «per configurare un’allegoria sociale finalizzata ad esporre la natura oppressiva delle potenti strutture patriarcali» (Mei Gao, 2020) ancora vigenti in molte comunità autoctone, l’opera di Zheng, al contrario, sembra seguire un paradigma profondamente differente. Dal momento che la dimensione diegetica di The Cloud in Her Room coincide precipuamente con il mondo interiore della protagonista, le cui idiosincrasie, riflessioni e percezioni visuali si configurano quali significanti primari del racconto, inscindibili dallo schema rappresentativo del film, gli elementi di realismo magico sono qui necessariamente correlati all’interiorità di Muzi.

In linea di continuità con le opere di Bi Gan, come Kaili Blues e Il lungo viaggio nella notte (2018), infatti, il film «incorpora una particolare forma di realismo magico intrinsecamente interrelata alla forma cinematografica, intesa come strategia di rappresentazione di realtà spirituali, connessioni cosmiche, e presenze spettrali che infestano il vissuto presente» esplorante, nel contempo, «le nozioni interconnesse di tempo, memoria e matrice sognante attraverso l’articolazione dello “Spettro Derridiano”» (Mei Gao, 2020). Se, dunque, l’interazione tra evocazione e realismo messa in scena dai due autori tende verso un fine narrativo simile, gli esiti estetici, così come i codici di linguaggio alla loro base, sono profondamente differenti.

Il film di Zheng, infatti, è assolutamente privo dei virtuosismi e delle specifiche marche audiovisive caratterizzanti lo stile estetico di Bi Gan (lunghi piani sequenza, articolati movimenti di macchina, ipnotismo dell’immagine) privilegiando, di contro, un approccio estetico decisamente più controllato e limitato nei codici di linguaggio: è solo attraverso l’assenza di movimenti della macchina da presa (inquadratura fissa) e del colore, con un’enfasi sulla plasticità dell’immagine e sugli spostamenti profilmici degli attori nella cornice di spazio inquadrato, che gli elementi onirici ed evocativi riescono qui ad emergere nel racconto, in un articolazione dello spazio filmico (ed urbano) fantasmatica, a metà strada tra il metafisico e il fenomenico, dove Muzi può finalmente cercare sé stessa e (ri)trovare quel rapporto spaziale con l’ambiente cittadino negatole dalla vacuità dello spazio in cui è immersa.

Riferimenti bibliografici
S. Antichi, Il mio corpo che cambia. Tra costruzione e smantellamento, lo spazio suburbano come paesaggio fisico, sociale e psicologico della Cina nel cinema di Jia Zhangke, in H-ermes. Journal of Communication, No. 14, 2019.
C. Comite, S. Colaiaco, Piccola Via della Seta – Capodanno Cinese fra tradizione, riti e modernità (I parte), in China Files, Febbraio 2021.
T. Edensor, The Ghost of Industrial Ruins: Ordering and Disordering Memory in Excessive Space, in «Environment and Planning D: Society and Space», Vol. 23, Dicembre 2005.
M. Gao, Between Ontology and Hauntology: Magic Realism in Contemporary Chinese Cinema, in RCL – Revista de Comunicacão e Linguagens. Journal of Communication and Languages, No. 53, 2020.

The Cloud in Her Rooms. Regia: Zheng Lu Xinyuan; sceneggiatura: Zheng Lu Xinyuan; cinematografia: Matthias Delvaux; musica: Yun-Fang Tseng; interpreti: Zhou Chen, Ye Hongming, Jin Jing, Dong Kangning, Dan Liu; distribuzione: MUBI; origine: Hong Kong; anno: 2020; durata: 102′.

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