Forse ne avete sentito parlare, è uscito un documentario sui Beatles: 8 ore in cui vediamo la band durante le sessioni di Let it be, nel 1969. Nelle scorse settimane è stato quasi impossibile non trovarsi di fronte ad un articolo o un post di commento/analisi/interpretazione: ma cosa abbiamo visto? Un documentario, un rockumentary, un film espanso, un proto-reality, una docu-serie? Digitalizzando e rimontando frammenti estratti da oltre 60 ore di girato di 150 ore di audio dell’epoca, Peter Jackson ha costruito un racconto che non è solo una monumentale celebrazione della band e del suo ruolo nella cultura popolare. The Beatles: Get Back è un meta-documentario, che aiuta a comprendere la trasformazione del rapporto tra audiovisivi, piattaforme e musica popular, sia dal punto di vista produttivo che da quello narrativo.
Beatles, industria musicale e digitalizzazione
Il documentario ripercorre la storia di uno dei periodi più discussi della band, quello che portò all’ultima performance pubblica, il noto “rooftop concert” sull’edificio della loro etichetta, la Apple, il 30 gennaio 1969. Peter Jackson ha avuto accesso al girato che servì per produrre Let It Be (Lindsay-Hogg, 1970), documentario disconosciuto dalla band e tutt’ora quasi introvabile. Ha restaurato e digitalizzato materiali di oltre 50 anni fa, mostrando lo stato d’avanzamento delle tecnologie di recupero di materiali d’archivio: The Beatles: Get Back è fatto di materiale video originariamente girato in 16mm o di audio ambientali da microfoni piazzati nei vari luoghi dove si muovevano i quattro. Immagini e suono sono talmente perfetti che Get Back appare non tanto come un restauro, ma un’opera d’arte completamente ridipinta: i bozzetti originali riportati alla luce e completati con nuovi colori e nuove tecniche. Un’operazione di questo genere ribadisce il valore sociale ed economico dei Beatles: come in passato, l’arrivo della band in uno spazio mediale stabilisce nuovi parametri.
Il catalogo dei Beatles è considerato quello di maggior valore della cultura popolare: la musica della band è arrivata tardi in download (2011) e streaming (2015), diversi anni dopo il lancio di iTunes e Spotify, dopo lunghe contrattazioni e di fatto segnando la maturità di entrambe le piattaforme. Se parliamo di cinema e TV, poi, il motivo per cui sullo schermo si sentono quasi esclusivamente cover e non canzoni originali della band è che le licenze costano troppo. C’è una nota eccezione: Tomorrow Never Knows in Mad Men (“Lady Lazarus”, 5×08, 2012), per cui lo showrunner Matthew Weiner sborsò 250.000 dollari, costruendo attorno al brano uno degli episodi più belli della serialità recente, diventato un parametro della complessità estetica e narrativa del rapporto tra canzone e serialità (Cardini, Sibilla 2021).
Il rockumentary e il racconto bio-agiografico del backstage
C’è chi ha provato a definire Get Back come una sorta di proto-reality, ma l’estetica del dietro le quinte nella musica è tipica del cosiddetto rockumentary, che si stava affermando proprio tra gli anni sessanta e settanta. Oggi, grazie a YouTube e ai social media siamo sommersi di immagini musicali sul palco e dietro le quinte; al tempo il backstage era merce rara, utilizzata dall’industria per rendere gli artisti più “autentici”. Il formato ha il suo apice negli anni 70: Woodstock (Wadleigh, 1970) è il primo grande successo del genere, mentre The Last Waltz (Scorsese, 1978) è il punto di arrivo (Baker 2021). Nei decenni successivi il formato del documentario/film-concerto si trasferisce prima nel mercato dell’home video e poi in format di MTV e VH1, come “Unplugged”, “Storytellers”, “Behind The Music”. Negli ultimi anni il documentario musicale si è digitalizzato, trovando nuovi grandi spazi sulle piattaforme.
Fin dalle origini e ancora oggi, i rockumentary vengono prodotti dall’industria con un obbiettivo retorico ben preciso: storicizzare un particolare evento musicale e/o consolidare un certo tipo di narrazione dell’artista. Non a caso, spesso questo genere sfocia nell’agiografia. Le scelte narrative compiute da Jackson in Get Back non santificano i Beatles. Da un lato li rendono più umani: ne raccontano sia i conflitti, sia le dinamiche interne. Ma, dall’altro lato, l’intreccio costruito dal regista vuole smontare il mito dei Beatles che si stanno distruggendo a vicenda per colpa di Yoko Ono (sempre a lato di Lennon, ma alcuni dialoghi spiegano che era una presenza accettata dalla band). Contemporaneamente viene rinforzato il mito della creatività dei Beatles, che viene raccontata come quasi magica: le canzoni sembrano arrivare quasi dal nulla, come nella citatissima scena in cui McCartney si inventa in pochi secondi la melodia della canzone che dà il titolo a tutto il progetto.
Le docu-serie: la piattaformizzazione del documentario
The Beatles: Get back è un punto d’arrivo della trasformazione narrativa e produttiva del documentario, la sua mutazione in docu-serie per le piattaforme. In campo musicale, le OTT hanno lavorato in una doppia direzione: da un lato, hanno riempito i cataloghi acquisendo titoli storici; ma dall’altro lato, hanno prodotto un gran numero di rockumentary e del suo sottogenere più noto, quello del film-concerto (Sibilla 2021). Nei cataloghi delle varie piattaforme troviamo tanto produzioni originali dedicate a Beyoncé, Bruce Springsteen, Travis Scott, Bob Dylan o Taylor Swift (addirittura due titoli su Netflix e uno su Disney+), così come lunghi documentari che raccontano la storia dei produttori Dr. Dre e Jimmy Iovine (The Defiant Ones, 2017, Netflix), dei Grateful Dead (Long Strange Trip, 2017, Prime Video), o più recentemente all’anno d’oro del rock 1971 (2021, Apple TV+). La fortuna del formato è tale che nella classifica dei migliori film del 2021, il New York Times include ben due documentari musicali prodotti da piattaforme.
Con la loro entrata sul mercato delle produzioni, le piattaforme hanno modificato il formato stesso del documentario. I titoli appena citati hanno origine nel modello espanso della docu-serie, affermatosi grazie al successo di casi come Making a Murderer (2015, Netflix). Questo formato prevede la ricostruzione e la narrativizzazione di un personaggio, di un caso di cronaca o di storia, con un racconto spalmato su diverse ore e diversi episodi, sul modello delle serie tv scripted. Un modello che, come le serie classiche, è stato replicato anche da produzioni locali: si pensi alla tanto discussa SanPa (2020, Netflix) prodotta in Italia. «È stata la pandemia a trasformare questo film di due ore e mezza in una serie di oltre sei ore», dichiara Peter Jackson nelle note di produzione di Get Back diffuse alla stampa, dove si legge poi che «come risultato, il progetto è passato da un film da distribuire al cinema a una docu-serie originale: in questo modo, i fan potranno dare uno sguardo ancora più approfondito al modo in cui i Beatles creavano la loro musica».
Si tratta evidentemente di uno storytelling, inteso come marketing e narrazione promozionale da comunicato stampa: a rendere Get Back uno dei documentari musicali più lunghi mai prodotti è stata la piattaformizzazione del racconto, trasposto in uno spazio dove non ci sono limiti e dove l’obbiettivo è massimizzare l’intrattenimento. Tant’è che la docu-serie è stata diffusa con un formato ibrido: una puntata al giorno nel weekend del Thanksgiving. Come a dire: solo i Beatles possono spingervi a vedere 8 ore di prove in studio, ma persino i fan dei Beatles faticano a reggere un binge watching così lungo.
“Get Back to where you once belonged” è la frase chiave di questo periodo dei Beatles: volevano tornare alle origini, ritrovare quella chimica di quando erano solo quattro ragazzi in una stanza che suonavano musica. Con The Beatles: Get Back Peter Jackson ha realizzato un documentario che riporta non solo alle origini della band più amata e discussa del mondo, ma a quelle di un formato di racconto audiovisivo che, grazie ai Fab Four, è rinato per l’ennesima volta.
Riferimenti bibliografici
A. Baker, Martin Scorsese and the Music Documentary, in ed., A Companion to Martin Scorsese, Wiley-Blackwell, Hoboken 2021.
D. Cardini, G. Sibilla, La canzone nelle serie TV. Forme narrative e modelli produttivi, Pàtron, Bologna 2021.
K.J. Donnelly, Magical Musical Tour. Rock and Pop in Film Soundtracks, Bloomsbury, New York 2015.
T. Poell, D.B. Nieborg, The Platformization of Cultural Production: Theorizing the Contingent Cultural Commodity, “New Media & Society”, vol. 20, 2018.
The Beatles: Get Back. Ideazione e regia: Peter Jackson; montaggio: Jabez Olssen; musiche: The Beatles; produzione: Apple Corps, Polygram Entertainment, Walt Disney Pictures, WingNut Films; distribuzione: Disney+; origine: Regno Unito, Nuova Zelanda, USA; anno: 2021.