C’è un passaggio molto interessante in una delle ultime puntate di Last Week Tonight with John Oliver (il late-night show di sinistra di HBO), dedicata agli affari di Donald J. Trump e uscita proprio pochi giorni prima delle elezioni. Con il suo stile pungente e rivelatorio John Oliver ricorda come durante la prima presidenza Trump risultò chiaro che il sistema etico che gestisce le questioni finanziarie dei presidenti si basasse su norme che possono essere ignorate. “Per esempio, Trump non era obbligato a rendere pubblica la sua dichiarazione dei redditi, e così non lo ha fatto. Allo stesso modo non era obbligato a mettere i suoi asset in un blind trust (come fanno altri presidenti) e non essendogli richiesto di fare neanche questo, non lo ha fatto”. Lo stesso Trump, continua Oliver, sembrava essere stupito da tanta libertà di movimento, come da lui stesso dichiarato in un’intervista al New York Times a Novembre 2016.

Questa è una delle cifre per capire la parabola di Trump e, forse, come funzionano gli Stati Uniti d’America – o almeno, ampi settori degli stessi. Nonostante lo shock Trump infatti, ancora oggi molta infrastruttura etico-morale statunitense si basa su una sorta di non scritto codice d’onore, di una fiducia nel fatto che gli altri non imbroglino, dalle piccole cose a quelle molto molto grandi, come l’idea che un Presidente degli Stati Uniti sarà sicuramente onesto e non avrà problemi a mettere da parte i propri affari mentre si dedica a quelli del paese. Per noi italiani, cresciuti a pane e sospetti, azzeccagarbugli e imbroglietti di vario tipo, tutto questo può sembrare incredibile, ma qui è ancora la norma – non scritta, ovviamente. 

La lunga premessa per dire che in The Apprentice (2024) si vede in nuce esattamente questo: l’ascesa al potere economico-finanziario di un uomo che dell’aggirare le regole ha fatto un’arte – the art of the deal, parafrasando il suo primo libro (1987), scritto con il giornalista Tony Schwartz. Concentrandosi su relativamente pochi anni della lunga e avventurosa vita di Donald Trump l’obiettivo del film è chiaramente, come spesso capita ai film biografici, provare a fornire delle cifre di lettura che possano aiutarci a interpretare anche il resto della vita. E quella di Trump è per l’appunto una vita vissuta nello schivare le conseguenze di comportamenti al limite – con la sua rielezione, ad esempio, diversi dei processi in cui era coinvolto verranno o sono già stati congelati.

Nel film vediamo l’inizio di questa parabola: il giovane Donald è un frustrato esattore di affitti per conto del padre nel Trump Village a Coney Island, all’epoca abitato prevalentemente da poveri e persone in difficoltà – “Io ho costruito la Trump Tower, tu il Trump Village… questa è Trump Tower, the big leage, the big time” come ricorderà lo stesso figlio al padre in una delle migliori scene del conflitto Trump senior/Trump junior. Poi l’incontro decisivo, quello con Roy Cohn, avvocato spregiudicato, il fine giustifica sempre i mezzi, alfiere del maccartismo, famoso per essere stato il giovanissimo (neanche trentenne) pubblico ministero che ha voluto la condanna a morte nel 1953 di Julius e Ethel Rosenberg, accusati di essere spie dell’Unione Sovietica. Il primo dialogo tra Cohn e Trump avviene simbolicamente ad un tavolo i cui avventori sono Carmine Galante e Tony Salerno, mafiosi di altissimo lignaggio effettivamente difesi dall’avvocato di Manhattan.

E se il rapporto, parzialmente burrascoso, con la prima moglie Ivana Zelníčková in Trump è sicuramente importante nel film, l’interesse del regista e dello sceneggiatore (il giornalista Gabriel Sherman) si concentra soprattutto su conflitti/interazioni tra Donald Trump e i vari coprotagonisti maschili che scandiscono questa fase della vita del futuro presidente: il padre, percepito come un ostacolo e piano piano sconfitto ai punti anche se mai mandato davvero KO – un po’ di amore paterno, suvvia, lo stesso che il tycoon non sembra capace di dedicare al primo figlio in un’altra scena emblematica, “I guess I am terrible with babies”; e poi il rapporto con il fratello maggiore, alcolista, schifato prima dal padre e poi dallo stesso fratello minore, morto prematuramente con annessi rimorsi – forse la scena più debole e sconnessa del film, con tanto di piantino a letto, non funziona la pretesa umanità di un uomo altrimenti descritto come brutale; e soprattutto quello con Cohn.

Da Cohn, Donald Trump impara quell’arte di aggirare le regole che lo accompagnerà per tutta la vita, impara la capacità di muoversi in un mondo altolocato che Fred Trump aveva solo sfiorato, la spregiudicatezza e la brutalità. Cohn nel film viene descritto come un padre e un fratello maggiore, con momenti in cui forse si allude anche ad un potenziale interesse sentimentale-erotico. Trump, che rigurgita i rapporti e scarta le persone quando non gli servono più (terribile la scena dello stupro della quasi ex moglie), non riesce davvero a liberarsi di Cohn, e gli rimane vicino – a modo suo – anche quando sta per morire, di una diagnosticata ma mai dichiarata AIDS. Cohn è l’ingranaggio che simbolicamente unisce vari puntini di un complesso paese come gli Stati Uniti: il potere attuale, la mafia italoamericana, il maccartismo, i magnati del real estate di New York, la finanza speculativa.

Vedere adesso il film di Abbasi è parecchio straniante, come se quella lunga ricorsa dovesse necessariamente arrivare al 5 novembre 2024, alla perseveranza degli statunitensi nell’eleggere Trump – il New York Times di due giorni dopo titolava “Torna Trump. Sconfigge Harris e completa la sua rinascita da outcast a criminale a presidente eletto”. Quando il film è uscito in USA, a metà ottobre, con una complessa storia distributiva, comprensibilmente Trump non ha gradito, anche se in realtà – a parte qualche scena – nel complesso il tycoon non ne esce così male. Se non altro, il suo narcisismo avrà trovato un doppio fedelissimo in cui rispecchiarsi, data l’impressionante al limite dello spaventoso mimica facciale trumpiana di Sebastian Stan – si sprecano gli aneddoti per cui l’attore si sarebbe trasformato nella vita privata, esercitandosi nell’interpretare Trump anche nelle azioni quotidiane, in primis il caratterizzante movimento delle labbra.

Altrettanto notevole la prova attoriale costantemente sopra le righe di Jeremy Strong trasformatosi in Roy Cohn, ma qui forse era un filo più facile perché non siamo abituati a vedere Cohn tutti i giorni sui nostri schermi e il referente è meno immediato. Ottime anche le ricostruzioni della New York gritty e bellissima pre-Giuliani, quando il crimine era a livelli altissimi e ambiziosi piccoli proprietari di palazzi non lussuosi potevano diventare Donald Trump. Il materiale d’archivio, utilizzato con parsimonia, non risulta mai pesante o stucchevole. The Apprentice è una visione interessante, un film che coglie un momento di passaggio nella storia USA e nella vita di Trump mentre ne stiamo vivendo un altro, dalle prospettive ancora incerte

Riferimenti bibliografici
D. Trump, T. Schwartz, The Art of the Deal, Penguin Random House, New York 1987.

The Apprentice. Regia: Ali Abbasi; sceneggiatura: Gabriel Sherman; fotografia: Kasper Tuxen Andersen; musica: Martin Dirkov, David Holmes, Brian Irvine; interpreti: Sebastian Stan, Jeremy Strong, Maria Bakalova, Martin Donovan, Patch Darragh, Stuart Hughes, Eoin Duffy, Chloe Madison, Catherine McNally, Charlie Carrick, Ben Sullivan, Mark Rendall, Joe Pingue, Jim Monaco, Bruce Beaton, Ian D. Clark; produzione: Gidden Media, Kinematics, Profile Pictures, Scythia Films, Tailored Films; distribuzione: BIM Distribuzione; origine: USA, Danimarca, Irlanda, Canada; durata: 120’; anno: 2024.

Tags     Trump, USA
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