Nel 1993 Francesco Casetti concludeva il suo volume sulle teorie del cinema dal 1945 al 1990 preconizzando un destino di dispersione e di frammentazione della teoria. La profezia era azzeccata. Di lì a pochissimo alcune influenti raccolte di saggi – in particolare Post-Theory a cura di David Bordwell e Noël Carroll (1996), Film Theory and Philosophy a cura di Richard Allen e Murray Smith (1997) e Wittgenstein, Theory and the Arts curato da Richard Allen e Malcolm Turvey (2001) – avrebbero attaccato frontalmente la Grand Theory francofona, accusata di essere troppo ambiziosa nei propri intenti e troppo fumosa nei propri enunciati. Si tratta di un dibattito che, variamente modulato e rilanciato (per esempio da David Rodowick) giunge fino a noi.
A nostro avviso la questione della (impossibile, possibile, consigliabile o necessaria) sopravvivenza della teoria del cinema va letto come il segnale di un fenomeno più profondo: alla fine degli anni novanta la teoria del cinema cambia pelle e si riconfigura come pratica di dialogo tra specialisti del cinema e studiosi di altre aree. Possiamo parlare (riprendendo un’idea che sviluppa John Durham Peters nel suo volume Marvelous Clouds del 2015) di un passaggio dal post-strutturalismo all’infra-strutturalismo: teoria non più come prodotto, ma piuttosto come processo, habitat persistente e rete di connessioni non sempre immediatamente visibile, che rende comunque possibili e fruttuosi la riflessione, il discorso, il confronto con altre discipline.
Più in particolare, riteniamo che un simile confronto è stato esercitato negli ultimi quindici anni circa in tre direzioni: verso la filosofia, verso le scienze neurocognitive e verso la mediologia. Per ciascuna di queste aree un concetto si è imposto quale baricentro della discussione: rispettivamente l’esperienza, il cervello, il dispositivo. […]
Il confronto tra teoria del cinema e filosofia ha ruotato attorno al tema dell’esperienza: esso evidenzia bene la volontà di coinvolgere nella riflessione alcune dimensioni della visione del film precedentemente trascurate, in particolare quella delle emozioni e della sensibilità corporea. Le aree del dialogo sono state sostanzialmente tre.
La prima riguarda la filosofia analitica e il cognitivismo: se già in precedenza era emersa un’indagine dell’esperienza dello spettatore come attività cosciente di comprensione del racconto filmico nel quadro del discorso teorico sulla Teoria della Mente (David Bordwell, Noël Carroll, Gregory Currie, Richard Allen), il dibattito integra alla “cold cognition” una “hot cognition” legata essenzialmente al ruolo delle emozioni filmiche e delle relazioni di simpatia o empatia con i personaggi. La seconda area del dialogo riguarda l’avvento (o la riemersione) di un approccio fenomenologico al cinema: in questo caso l’esperienza dello spettatore viene avvertita come primariamente e radicalmente incarnata, fondata sulle categorie del sentire corporeo immediato e sulle sue risonanze multi- e inter-sensoriali. La principale autrice di questo orientamento, Vivian Sobchack, parla di uno spettatore “cinestesico”: ovvero sinestesico, cenestesico e cine-estesico. Infine, la terza area del dialogo con la filosofia si concentra sulla natura stessa della relazione tra il film e il pensiero, ovvero sull’idea di teoria del film come filosofia – o, più precisamente, sulla possibilità che l’esperienza filmica produca pensiero. Siamo di fronte non più solo a una lettura filosofica del film, bensì a una vera e propria “filosofia del film”, influenzata da nomi peraltro molto differenti quali Stanley Cavell e Gilles Deleuze, ciascuno con i suoi sviluppi.
Il confronto tra teoria del cinema e scienze dure affonda le sue radici nell’incontro con il cognitivismo celebrato alla fine degli anni novanta da Bordwell e Carroll. Nondimeno, i due studiosi non potevano sapere che di lì a poco il perfezionamento delle tecniche di indagine e in particolare di brain imaging avrebbe avviato una tendenza fisiologizzante delle discipline psicologiche, accedendo un dialogo sempre più serrato con le discipline umanistiche all’insegna dell’idea di cervello, che non poteva non estendersi rapidamente all’esperienza filmica.
All’interno di questo campo di studi, attualmente in piena espansione, possiamo distinguere tre grandi tendenze. La prima è stata sviluppata da autori quali Tim Smith, Uri Hasson, Jeffrey Zacks ed è focalizzata sull’ideazione e realizzazione di esperimenti mediante differenti varietà di strumenti empirici (eye tracking, risonanza magnetica funzionale, elettroencefalogramma, ecc.) per comprendere cosa avvenga nel cervello degli spettatori di fronte a brani di film stilisticamente diversi. La seconda tendenza consiste in una riflessione epistemologica sull’opportunità e l’eventuale utilità dell’integrazione dei metodi e dei risultati della ricerca empirica all’interno della teoria del cinema: troviamo i nomi di Raymond Bellour, Patricia Pisters e soprattutto Murray Smith. La terza tendenza infine intende giungere attraverso le neuroscienze a una nuova definizione dell’esperienza dello spettatore cinematografico, aggiornata alle tendenze embodied e enactive della neurofenomenologia più recente (riconnettendosi in tal modo ad alcuni aspetti filosofici sopra citati): si pensi per esempio al lavoro di Vittorio Gallese e Michele Guerra, di Torben Grodal, o anche degli autori di questo articolo.
Sul fronte infine del dialogo con la mediologia, risulta ovviamente decisivo l’avvento del digitale: nel corso degli anni ottanta il cinema perde i propri criteri distintivi “ontologici” di medium modernista, viene uniformato ad altri mezzi di comunicazione ugualmente digitalizzati, ed entra in quella che Rosalind Krauss nel 1999 ha definito L’era postmediale. A livello teorico questa nuova condizione produce due effetti opposti ma correlati.
Per un verso la teoria considera le forme di “rilocazione” del cinema all’interno di contesti un tempo anomali se non impossibili: sale di museo, installazioni artistiche, megaschermi urbani, mini o microschermi di tablet e telefonini, e così via. Si tratta in questi casi di capire cosa resta del cinema, e in che senso continuiamo a usare (in forma lecita) questa parola. Alcuni libri di riferimento sono La querelle des dispositifs di Raymond Bellour (2012), Tecnologie della sensibilità di Pietro Montani (2014) e La Galassia Lumière di Francesco Casetti (2015).
Per altro verso la teoria rilegge il passato del cinema inserendosi nel più ampio alveo dell’“archeologia dei media”: citiamo per esempio i numerosi volumi di Erkki Huhtamo e Jussi Parikka, come anche il recente Film History as Media Archaeology di Thomas Elsaesser (2016). In questo senso si inserisce anche la riscoperta nei paesi anglosassoni delle opere “tecnocentriche” di Friedrich Kittler pubblicate negli anni ottanta e novanta. Sintomatico il successo teorico in questa chiave dello schermo (pre)cinematografico, al centro oggi di numerosissimi studi (per esempio di Mauro Carbone,Erkki Huhtamo, Giuliana Bruno, Francesco Casetti e molti altri).
Esiste in ogni caso un aspetto specifico di collegamento tra ispezione o prospezione da un lato e retrospezione dall’altro: risulta centrale in entrambi i casi il concetto di dispositivo (cui la rivista Fata Morgana. Quadrimestrale di cinema e visioni ha dedicato un importante numero monografico nel 2014). Esso permette di affrontare direttamente tutti i nodi problematici sopra delineati attraverso una serie di domande chiave: cos’è un dispositivo e come connette saperi, pratiche e tecnologie? Da quali precedenti dispositivi deriva il cinema, e quali forme più o meno canoniche ha assunto nel tempo? Come si dissemina e si riloca oggi il dispositivo cinematografico, quali ambienti crea, quali trasforma? Come cambia insomma il cinema, come viene cambiato, e quali distruzioni oggi lo creano?
*Questo articolo riprende parti della Introduzione al volume di Ruggero Eugeni e Adriano D’Aloia, Teorie del cinema. Il dibattito contemporaneo, Raffaello Cortina, Milano (in corso di pubblicazione).