I. Il dipinto Il discorso della Montagna di Carl Heinrich Bloch, che riprende la celebre vicenda narrata nel Vangelo di Matteo, mostra Gesù mentre predica a una folla raccoltasi su una montagna nei pressi di Cafarnao. È in questo scenario che Gesù introduce le famose beatitudini e afferma di essere venuto non per abolire la Legge ma per portarla a compimento. Perché Gesù ha scelto proprio una montagna per parlare di tali questioni? Il ruolo che la montagna assume nei racconti biblici è infatti antitetico a quello del mare, il quale può essere associato alla violenza e alla morte: Yām, tradotto con thalassa nella Settanta, nomina proprio il mare tempestoso, il caos primordiale.
Infatti, solo per citare qualche esempio, Isaia parla del Leviatano, un serpente tortuoso, drago marino che verrà ucciso da Dio (Is. 27,1), Giobbe invece si riferisce a Raab, termine che farebbe riferimento al mare in tempesta, che può essere domato soltanto da Dio (Gb. 26, 12-13), mentre nell’Apocalisse appare una bestia che sale dal mare: «E vidi salire dal mare una bestia che aveva dieci corna e sette teste, e sulle corna dieci diademi e sulle teste nomi di bestemmia» (Ap. 13). Secondo l’esegesi di Giancarlo Biguzzi, con riferimento alla geografia politica di Ap. 13, la bestia che sale dal mare è proprio l’Imperatore, «signore del mare nostrum che si fa adorare dall’ecumene mediterranea». La montagna, invece, introduce una relazione inestricabile fra la beatitudine e l’essere umano resa manifesta dall’indice della mano di Gesù rivolto verso il cielo mentre parla alla folla in ascolto, tanto nella versione del dipinto di Bloch che in quella di Beato Angelico.
Rispetto al monte Sion, nel Salmo 87 è utilizzata la formula jullad sham / jullad bah, “tutti là sono nati / in essa sono nati” tutti i popoli della terra, da Rahab a Babel fino alla Palestina, i quali trovano diritto di cittadinanza in Gerusalemme. Qui, come si afferma nei versetti finali, i popoli vivono danzando e cantando: «Sono in te tutte le mie sorgenti». Il monte Sion è, però, anche il monte dell’incontro, si ricordi a tal proposito la preghiera che Salomone dedica al santuario riportata nel primo Libro dei Re: il monte è il luogo in cui l’essere umano incontra Dio attraverso le preghiere.
È qui curioso abbozzare un parallelo con la religione islamica. In tale contesto il Monte della Luce – Jabal al-Nūr – nomina il luogo in cui Maometto ricevette la rivelazione della parola divina dall’angelo. Disceso dal monte e pronto a compiere la missione di iniziazione dell’Islam, Maometto, insieme a un compagno, trovarono rifugio in una grotta sul monte Tawr per sfuggire agli inseguitori Meccani, qui il profeta dirà all’amico: «Non t’attristare! Dio è con noi!», affermazione che è messa in relazione con un versetto del Corano in cui si afferma che gli amici intimi di Dio sono coloro le cui vite non sono dominate dalla paura e dalla tristezza.
II. Che la montagna sia un simbolo teologico fondamentale è confermato anche dal celebre titolo che Giovanni della Croce volle attribuire alla sua opera: Salita al Monte Carmelo. Se osserviamo il grafico, che sintetizza schematicamente il cammino di unione con Dio, notiamo che a differenza di quelli di sinistra e destra quello centrale arriva alla vetta del monte ed è contrassegnato con l’espressione “Senda del monte Carmelo. Espíritu de perfección. Nada-nada-nada-nada-nada-nada aún en el monte nada”. La scritta che perimetra la vetta, invece, riporta quanto segue: «Vi introdussi nella terra del Carmelo perché ne mangiate i frutti»; similmente a quanto si afferma in Ger. 2,7: «E io vi ho condotto in un paese che è un frutteto, perché ne mangiaste i frutti e i buoni prodotti», mentre in quella posta nel centro si afferma che «in questo monte dimorano soltanto l’onore e la gloria di Dio». Ai due estremi superiori aleggiano due frasi di liberazione, quella di sinistra: «Nessuna cosa mi esalta»; quella di destra: «Nessuna cosa mi rattrista». Mentre nel margine superiore: «Qui già non vi è più sentiero perché per il giusto non vi è legge, egli è legge a se stesso». Per giungere a Dio è necessario compiere un percorso di spoliazione («Quanto più cercai di averne con tanto meno mi trovai»), liberarsi da tutto ciò che stabilisce un vincolo con il mondano, perché «in questa nudità l’anima / trova il suo riposo».
Come afferma Giorgio Agamben nell’introduzione alle poesie del mistico carmelitano, l’esperienza finale che la teologia mistica implica «è quella, puramente negativa, di una presenza che non si distingue in nulla da un’assenza», pertanto essa non è una teologia ma una teo-alogia, in quanto in essa conoscenza e non-conoscenza coincidono. Proprio per questo, l’anima, a seguito della via negationis che percorre, una volta giunta alla vetta del monte non deve più obbedire a nessuna legge in quanto il giusto «è legge a se stesso», pertanto nomia e anomia coincidono senza residui e l’essere umano può sperimentare la sua beatitudine. Lo stesso Gregoria di Nissa nel libro dedicato alla vita di Mosè sostiene che alla cima della montagna il movimento coincide con l’immobilità: «“Férmati” gli dice “presso la roccia”. Questa è la più straordinaria fra tutte le cose: come immobilità e movimento possano identificarsi». Dunque, se nella dimensione della montagna il movimento diventa indistinguibile dall’immobilità, ciò significa che non solo l’anima ha in qualche modo raggiunto uno stato di felicità, ma soprattutto che la vita non è più sottomessa a un fine da raggiungere o a un principio a cui sottostare.
Nella letteratura islamica, soprattutto in quella di matrice persiana, è possibile scorgere qualcosa di simile. Il monte Qāf appare come la dimora di Sīmurgh, la gigantesca fenice immortale che nella tradizione sufista è simbolo di Dio e dell’anima capace di guardare come l’essere divino. Tale idea appare con chiarezza nel poema Mantiq al-tair (“Linguaggio degli uccelli”) di Farīd’ od-Dīn, in cui il viaggio dei trenta uccelli alla ricerca del loro re Sīmurgh, dopo essere passati per le otto vallate che compongono il viaggio, si conclude con il loro ritrovarsi faccia a faccia con se stessi (Sī-murgh, cioè trenta uccelli): la realtà divina coincide con la visione di se. Come osserva Pierre Pascal in una nota a commento del testo Roba’iyyat di Omar Khayyam, diverse leggende narrano che oltre la catena impervia del monte Qāf «la primavera è perpetua, semine e raccolti avvengono nella stessa giornata, e le malattie vi sono ignote». La montagna rappresenta, dunque, l’unione inscindibile tra Dio e l’essere umano, il loro coincidere.
III. Che cos’è la montagna, o meglio, che tipo di dimensione dell’essere umano nomina? La montagna definisce la condizione in cui l’antropogenesi – il diventare umano dell’essere umano – è in qualche modo sospesa o portata a compimento: l’umano risulta inscindibile dal divino e dall’animale, sperimenta la sua beatitudine, e la politica che ne deriva non può più avere una matrice teologica ma teo-alogica, in quanto Dio – e con esso i fondamenti che ha consegnato alla politica Occidentale – non poggiano più su un fine da raggiungere o realizzare né tantomeno possono operare come categorie presuppostali del governo dei viventi, piuttosto sono resi inoperosi: conoscenza e non-conoscenza, movimento e immobilità, nomia e anomia coincidono.
Ripensare la politica seguendo tale schema significa, in qualche modo, cogliere il suggerimento di Hölderlin: vivere come le querce. Durante le camminate nei sentieri di montagna notiamo subito che i nostri passi, le nostre tracce, si mischiano a quelle degli animali che abitano il bosco, agli aghi di pino sul suolo, alle piante: la nostra voce si confonde con il suono degli uccelli e il rumore dell’acqua. Come sostiene Sjöberg, si tratta di un con-senso universale: «Da tutto nasce senso e tutto, dal verme al corpo celeste, produce ed elabora il nostro comune mondo». Non vi è alcun motivo di tracciare una linea di demarcazione netta tra il belare delle pecore, il frusciare delle foglie e il vivere umano nella montagna, le vite dei viventi si confondono e non possiamo più dire “io”, siamo sospesi, abitanti di un tempo della fine che ci consegna all’esperienza di una beatitudine comune e condivisa: quodlibet in quodlibet.