Viviamo un’età di grandi trasformazioni sociali, economiche e politiche: questo movimento finirà senza dubbio per ridisegnare la geografia del globo terrestre, per ridefinire i rapporti tra le diverse regioni del mondo. È un’età di transizione. Filosofi e filosofe sono impegnati a formulare ipotesi sull’avvenire, nel cogliere i segni dei tempi, nel captare i segnali di cambiamento. In Tra passato e futuro Hannah Arendt usa una metafora potente per descrivere la condizione del pensatore chiamato a fare un esercizio di comprensione del tempo presente. La filosofia, se è un pensiero politico capace di cogliere il senso profondo dell’attualità, non può abitare il presente come se si trattasse di un tempo statico: l’attualità è percepita come un’epoca stretta tra passato e futuro.

La via d’uscita da questa doppia pressione sta nel senso che riusciamo a dare al nostro vivere comune attraverso parole, opere e azioni. Nel suo ultimo libro, intitolato Tecnofascismo (Einaudi, 2025), Donatella Di Cesare fa proprio quanto mai prima l’impegno a fare della filosofia un pensiero politico, un luogo in cui l’attualità diventa occasione per pensare il tempo presente, il suo legame con il passato e la sua apertura verso il futuro. L’attualità è una superficie opaca, di cui il presente costituisce lo strato profondo.

L’autrice intraprende l’analisi critica del presente, partendo da quello che con Hölderlin e Heidegger possiamo definire il pericolo più grande: stretto tra i due mostri politici contemporanei, il «reazionario Behemoth e il Leviatano liberale» (Di Cesare 2025, p. 3), il mondo rischia oggi una deriva verso una «inquietante combinazione dei due», il tecnofascismo. Il nome stesso di questa nuova forma politica ibrida ne denuncia la natura: è la tentazione di offrire una soluzione politica regressiva alle trasformazioni sociali ed economiche prodotte dal travolgente progresso tecnologico degli ultimi trent’anni, prima con l’informatica e oggi con l’intelligenza artificiale.

Di Cesare è ben consapevole del fatto che, nel quadro politico attuale, l’insidia principale è rappresentata dalle “democrazie illiberali”, quei regimi politici i quali, senza sospendere formalmente le istituzioni democratiche, ne negano i princìpi di fondo, dall’oppressione delle minoranze alla disprezzo dei diritti civili fondamentali, fino alla celebrazione di forme di rappresentanza politica plebiscitaria. Si tratta dell’attualità politica: una comprensione filosoficamente attrezzata ha però bisogno di andare oltre la superficie, indicando anche possibili vie d’uscita ai pericoli della politica contemporanea. Una riflessione filosofico-politica di questo genere è un pensiero messianico, nel senso delineato da Walter Benjamin: essa interpreta i segni dei tempi, scorgendo nei pericoli nascoste possibilità di trasformazione.

L’autrice invita a leggere il libro sia come un saggio unitario sia come un insieme di incursioni in zone critiche del presente, che possono essere affrontate autonomamente; è tuttavia leggibile in filigrana la struttura teorica del libro. La prima metà, fino al capitolo Espertocrazia o il potere dei tecnici, può essere letta come un’analisi delle categorie fondamentali su cui si fonda l’idea di tecnofascismo e le sue diverse incarnazioni storiche, più o meno compiute. È l’epoca di un «demos senza kratos» (ivi, p. 5), di un popolo privato del potere politico attraverso una serie di strategie di svuotamento della democrazia dal suo interno: si va dalla riduzione della vita a logiche economiche all’esplosione delle pratiche securitarie, con un chiaro rimando alla riflessione sulla biopolitica inaugurata da Michel Foucault (ivi, p. 17).

Il libro individua alcuni modelli politici emergenti, che si propongono di orientare più o meno consapevolmente la democrazia verso una deriva tecnofascista. Il primo di questi modelli è l’«etnocrazia» (ivi, p. 13): si tratta della sostituzione ideologica del concetto di popolo con quello di etnia, allo scopo di produrre un’esclusione di minoranze sgradite, in modo da dare l’illusione di essere protetti da pericoli esterni. Si può parlare di «fobocrazia» (ivi, p. 33): è il modello di riferimento delle destre xenofobe. Il secondo modello è legato all’idea di un «tempo senza futuro» (ivi, p. 19). Il 1989, lo sappiamo, ha dato l’illusione della fine della storia. Le cose non sono andate così, ma sul piano ideologico l’illusione ha prodotto effetti duraturi. Scrive Di Cesare: «Nei molteplici millenarismi del passato si poteva meditare, e forse fantasticare, intorno alla fine dei tempi, tra credenze, attese, deliri. Noi siamo oggi i primi a dover credere nella fine senza riuscirci. Siamo i primi a pensare di essere forse gli ultimi» (ivi, p. 21).

Viviamo, in altre parole, in una specie di millenarismo realizzato. C’è infine l’«espertocrazia» (ivi, p. 51 e sg.), il governo degli esperti che in virtù del suo carattere razionale sembra esente da rischi di arbitrio. A fronte di queste «enormi attese», Di Cesare rileva tuttavia alcune «mal riposte speranze» (ivi, p. 57): l’espertocrazia genera reazioni di rigetto, stimolando la formulazione di teorie del complotto e il rifiuto della scienza (ivi, p. 55), in quanto si mostra indifferente alla libertà della moltitudine. L’espertocrazia opera infine una modificazione delle logiche della politica nella misura in cui trasforma il politico nell’«esperto degli esperti, l’ipertecnico della programmazione, che nel migliore dei casi sa amministrare, sa scegliere i mezzi del governo, ma non sa più perché, né a qual fine e che, anzi, non sa più scegliere il fine» (ivi, p. 58).

La seconda parte del libro, tranne il capitolo finale, è dedicata a una ricognizione di quelle che definire le figure del tecnofascismo. Il libro offre qui un’interpretazione illuminante del riemergere di uno tra i più tragici fenomeni della politica novecentesca, il razzismo, attraverso un’analisi lucida, che coglie con chiarezza i modi e le forme di questa nuova emergenza. È esemplare da questo punto di vista lo spirito con cui Di Cesare denuncia tanto l’emergere di un odio anti-islamico quanto il rinascere dell’antisemitismo. Fondamentale è l’interpretazione della figura della vittima, che indica bene il carattere ambiguo e ambivalente della politica contemporanea. Il «nesso tra compassione, vittime e democrazia» (ivi, p. 59) è visto come uno dei luoghi critici in cui può avvenire lo scivolamento verso derive tecnofasciste.

Già il filosofo francese Jacques Rancière aveva messo in guardia contro la sacralizzazione della vittima, ridotta a «figura patetica» (ivi, p. 63): una soggettività privata della capacità di rivendicare i propri diritti politici. Di Cesare indica i due grandi rischi connessi a questo paradigma: la «tentazione dell’innocenza» (ivi, p. 66), ossia l’idea che per essere autenticamente democratici occorra identificarsi con la figura della vittima; e il «risentimento» (ivi, p. 67), già al centro della critica di Nietzsche alla “morale degli schiavi”, i quali non cercano giustizia, ma vendetta. Sono senza dubbio le pagine più brucianti del libro, perché, anche se implicitamente e con rigore e misura, non possono non rimandare il lettore alla più scottante attualità politica.

Fin qui si è detto della pars destruens del libro. La pars construens, l’apertura di un orizzonte oltre il rischio del tecnofascismo è affidata in particolare all’ultimo capitolo, Abitare e coabitare, ma è leggibile in filigrana lungo tutto il testo, emergendo nei luoghi dove sono indicate alternative ai modelli politici prevalenti. Lo stesso abitare, che in tedesco si dice wohnen, verbo di cui Di Cesare esamina l’etimologia, rimanda all’idea di avere una consuetudine con un mondo condiviso da altri (ivi, p. 140). Si tratta dunque di un coabitare, che non è dell’ordine privatistico dell’oikos, dell’abitare domestico, ma dell’ordine pubblico della polis, del luogo comune per definizione (ivi, p. 141).

Di Cesare lo dice chiaramente: la «democrazia immunitaria», che abbiamo edificato attraverso strategie tutte orientate alla difesa e al controllo, è «povera di comunità» (ivi, p. 109). L’antidoto a questa deriva fa appello in particolare a due pratiche, che possono essere viste complessivamente come un vero e proprio progetto di reintegrazione dell’antropologia politica del nostro tempo. Sono la responsabilità e l’esodo: rispettivamente la capacità di rispondere delle proprie azioni non solo per sé, ma in vista delle loro conseguenze per gli altri; e la capacità di immaginare possibilità di fare comunità che si svincolino da logiche autoritarie e gerarchiche. Il pericolo è grande, ma fa emergere ciò che può salvarci.

Donatella Di Cesare, Tecnofascismo, Einaudi, Torino 2025.

Tags     fascismo, tecnologia
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