Se, come insegna Umberto Eco, la costruzione del nemico è il gioco di specchi necessario alla definizione di un’identità, la tentazione in cui rischia di cadere un certo umanismo di fronte al problema della tecnica è la dicotomia “da stadio” noi/loro tesa a stabilire, fuor da ogni rischio di contaminazione, cosa è la macchina e cosa non è l’uomo, cosa non è la macchina e cosa è invece l’uomo. In questa guerra dei mondi che schiera in fronti contrapposti da un lato le ragioni della tecnica come inumano, dall’altro quelle dell’umano, la macchina spesso assume il volto dell’alieno. Ma vedere nella macchina l’alieno, l’Altro che nulla ha a che spartire con l’humanitas dell’uomo, non è precludersi la possibilità di una comprensione più lucida dei problemi della tecnica? E questo ritratto dell’alieno ci salva forse dalle forme di alienazione che si impongono ora più che mai con le nuove tecnologie digitali?
Rinuncia a una narrazione dell’alieno il volume collettivo, Tecnica e coesistenza. Prospettive antropologiche fenomenologiche ed etiche, a cura di Lorenzo De Stefano. La strada qui percorsa non intende prendere le mosse dall’assunzione dell’artefatto tecnico come oggetto, distinto e distante dal soggetto umano; né come oggetto-giocattolo manipolabile a piacimento; né Oggetto-Dio che precluderebbe la libertà dell’azione umana e quindi una possibilità di rivolgimento di prassi tecniche che effettivamente minano l’essere con gli altri proprio dell’uomo. Piuttosto, alla luce del concetto di coesistenza, nel libro curato da De Stefano affiora un’inedita problematizzazione interdisciplinare della relazione uomo-tecnica. Come pensare oggi i due termini della diade? Esiste l’Uomo per come lo conosciamo fuori da questa relazione? Una umanità dell’uomo come antecedenza della tecnica? Rispondere negativamente a questa domanda non significa protendere per un’identificazione asfittica tra i due poli né rintracciare nella corsa sfrenata al progresso tecno-scientifico il destino più proprio dell’umano, ma vedere nell’antropogenesi un processo strettamente legato alla tecno-genesi.
È questa la prospettiva che innerva l’intero volume, richiamata già dal contributo in apertura di Di Martino, che rinviene come «l’individuo umano si viene costituendo come tale per una via che è anche extraorganica, a partire dalle sue estensioni tecniche e culturali, dall’azione retroattiva che i media svolgono su di esso» (De Stefano 2024, pp. 32-33). Pertanto, tenendo conto di un «essere umano premessa e conseguenza del suo fare tecnico», si deve riconoscere che «il manipolatore è manipolato, trasformato» da quel dispositivo che a sua volta manipola (ivi, p. 34), laddove riconoscere è già in parte disinnescare alcuni effetti tossici dell’odierna tecnologia sull’animale sociale che è l’uomo: la captazione dell’attenzione, la «categorizzazione della singolarità ad opera degli algoritmi», la «liquidazione del desiderio» a favore delle pulsioni canalizzate nella direzione dei consumi.
Perché la narrazione dell’alieno è all’opera non solo nei toni da propaganda bellica di un umanismo tecno-fobo, ma si insinua anche in tutti quei tentativi naïves di riguadagnare un’innocenza alla tecnica secondo l’adagio: non è la macchina il problema, ma il singolo individuo. Si tratta di una fallacia speculare a quella che entra in gioco nelle dinamiche di costruzione del nemico. Sempre entro una dicotomia insanabile, da un lato si pone la tecnica come mondo dei mezzi, della materialità inerte e neutrale e dall’altro il mondo dei fini, dei valori: l’uomo che è il fine supremo, il fine in sé, secondo la nota lezione kantiana.
Se qui la guerra è negata e soprattutto ritenuta non necessaria, la tecnica sveste i panni del nemico, ma conserva il volto dell’alieno, dell’irriducibilmente altro dall’uomo: gli effetti della tecnica sarebbero allora perfettamente plasmabili dalle intenzioni e delle pratiche del singolo individuo. E in questa caratterizzazione l’individuo è sempre individuo tout court: ab-solutus, astratto dal sociale, dallo spazio in cui le tecnologie, non più meri accessori d’arredo, innervano quelli che si caratterizzano a tutti gli effetti come ambienti mediali (Cecchi, Feyles, Montani 2018).
Se già Benjamin ci insegna a guardare al linguaggio, la tecnica per eccellenza, nei termini di medium piuttosto che in quelli di mezzo, canale neutro di trasmissione di un messaggio da mittente a destinatario, è opportuno abbandonare l’equazione dura a morire di tecnica come ὄργανον a favore del concetto mcluhaniano di medium come «estensione ed esteriorizzazione» dell’umano che lo stesso Di Martino cita. D’altronde rifarsi al concetto benjaminiano di medium come spazio in cui entrano in relazione umano e non umano, consente di non tralasciare il carattere intermediale del mondo in cui avvengono i nostri incontri e i rapporti reciproci che gli artefatti della tecnica intrattengono tra loro. Ponti, strade e piattaforme digitali, a seconda dei modi della loro reciproca interazione, vanno a costituire uno spazio che può diventare più o meno abitabile, più o meno inclusivo e di conseguenza più o meno umano.
È proprio qui che da un’antropologia e da una fenomenologia della tecnica ci si incammina nei territori di una etica e di una politica della tecnica, guidati da un altro interrogativo cruciale. E se l’alieno fosse invece l’uomo? Alieno in un mondo di macchine che dettano la misura epistemica ed ermeneutica del cosmo, alla luce di una garanzia di oggettività che la conoscenza umana, che reca il “peccato originale” della soggettività, non possiede. Cosa avviene d’altronde quando deleghiamo alle dinamiche di profilazione dei social network e a quell’algoritmo che si tramuta in destino, precludendoci spesso l’incontro col diverso, il compito di dettare la Verità su noi stessi e sui nostri desideri? Cosa avviene quando si chiede a una macchina di fornire una «misura oggettiva» di ciò che è massimamente soggettivo?
È questo il fulcro del saggio di Romele sulle tecnologie AI di rilevamento automatico del dolore, che si basano sul riconoscimento della mimica facciale del paziente. Se la loro utilità nell’assistenza di soggetti incapaci di comunicare verbalmente il dolore è innegabile, «il rischio di voler stabilire un’epistemologia del dolore più “certa” ed “oggettiva” di qualsiasi conoscenza del dolore che potrebbe essere derivata dalle narrazioni dei malati» è dietro l’angolo (De Stefano 2024, p. 195). Ad ogni modo, un uomo alieno di fronte a una “macchina” non è una novità nella storia umana. Basti pensare alla machina del pensiero filosofico-scientifico moderno: la natura come «regno delle leggi», meccanismo passivo da cui l’agente, come «capacità di operare nel mondo» viene espunto. Sovrannaturale allora diviene non solo il trascendente Deus ex machina, ma senso persino l’uomo, ormai «metafisicamente alieno rispetto all’orizzonte dalla natura» (ivi, p. 200).
Un uomo che si percepisce ancora alieno rispetto alla natura e all’animalità di cui si dimentica di essere parte, restio ad accogliere una «cognizione del limite», è quello che presenta Biuso. Nella sperimentazione farmacologica e nella manipolazione genetica dell’animale ad opera delle biotecnologie, l’essere umano ha portato a un culmine di inaudita crudeltà la guerra che da secoli conduce contro gli altri animali. L’intervento delle tecnologie sulla vita animale si traduce in un «privare l’animale del tempo», che è la sua dimensione più propria, e a «imprigionarlo in un presente che è solo agonia» (ivi, p. 155). Conscio dell’urgenza etica della questione in gioco, Biuso lancia un aut aut radicale: fare a meno del «provincialismo antropocentrico» che sta riempiendo di lutto il pianeta o accogliere l’ipotesi che il pianeta farà a meno di un uomo incapace di riconoscere la profonda relazione che lo lega all’ambiente e agli altri viventi.
D’altronde ad invitarci a riconsiderare radicalmente la posizione dell’umano nel cosmo, nella direzione di una sua eccentricità rispetto al naturale piuttosto che di un’ingiustificata supremazia, può essere proprio lo statuto originario della tecnica per come la pensa già Platone nel Protagora. Il mito platonico ci insegna infatti che è proprio in virtù di una deficienza ontologica, di un’incompiutezza organica rispetto agli altri animali, che la specie umana è dovuta ricorrere a un fuori da sé per sopravvivere: la tecnica. «L’Homo è l’unico animale che ha una organogenesi esomatica che archivia la memoria fuori dal suo apparato organico, nei media, ma anche nelle leggi, nella cultura e nei valori» (ivi, p. 221).
Con la lettura del Protagora di De Stefano, che riassume quasi in un movimento circolare le ragioni dell’opera, si chiude un volume che pensa il problema della tecnica come il problema dell’uomo che attraverso e con essa si fa. Definire la tecnica è quindi nient’altro che un modo di ri-definire l’uomo tenendo conto della sua indefinibilità che è un definirsi, intrinsecamente storico e sociale, sempre in fieri, che rimanda necessariamente all’altro da sé. In questo senso si dispiega il legame tra tecnica e coesistenza: coesistenza con l’altro come uomo, come vivente, come cosmo.
Guardare alla tecnica nell’orizzonte della coesistenza che definisce l’umano in quanto ontologicamente finito, richiede perciò una riflessione a più voci, che chiami in causa anche diverse discipline, prospettive, e storie di pensiero pur di guadagnarsi una comprensione della τέχνη che non si alieni il suo oggetto. Una comprensione che di fronte ai “prodigi” tecnologici non resti ammutolita nella fobia di un umanismo essenzialista o in quel ϑαυμάζειν acritico e infantile, per niente aristotelico, incapace di elevarsi alla riflessione critica.
Bibliografia
W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua degli uomini, in Id., Opere Complete I, Einaudi, Torino 2008.
U. Eco, Costruire il nemico, La nave di Teseo, Milano 2020.
P. Montani, D. Cecchi, M. Feyles, a cura di, Ambienti mediali, Meltemi, Roma 2018.
Lorenzo De Stefano, a cura di, Tecnica e coesistenza. Prospettive antropologiche, fenomenologiche ed etiche, Mimesis, Milano 2024.