Teatro Amazonas, nuovo spettacolo di Azkona & Toloza presentato al Romaeuropa Festival 2021, fa parte della trilogia Pacìfico, avviata nel 2014 e incentrata sul tema del colonialismo in Argentina, Brasile e Cile. In ciascuno dei tre spettacoli di cui si compone viene messo a fuoco in che modo un territorio naturalmente ricco di materie prime sia stato saccheggiato, privato dei suoi beni, la popolazione sradicata dal proprio habitat e dalla propria cultura, le ricchezze del territorio esportate in altri paesi per creare i capitali che alimentano l’industria delle armi, della finanza mondiale e non ultimo dell’arte contemporanea. In tutti e tre si evidenzia inoltre come il colonialismo si sia nutrito dell’alleanza fra chiesa cattolica, capitalismo e governi militari, cancellando la storia dei popoli indigeni latino-americani, della loro resistenza all’annientamento, come i Mapuche, espropriati delle loro terre, in fuga nel tentativo di scampare allo sterminio. Viene esposto dunque come lo sfruttamento di questi territori abbia nel contempo messo in pericolo e devastato l’ ambiente, i fiumi, le montagne, le foreste, la fauna. Quello che scopriamo in questi tre spettacoli è la relazione fra l’arte contemporanea e il colonialismo incarnato dalle potenze industriali come Guggenheim, Ford, Benetton.
Il lavoro comune fra Laida Azskona Goñi, danzatrice con una formazione internazionale (nasce a Pamplona in Spagna) e Txalo Toloza-Fernández, videomaker (nasce a Santiago del Cile per poi trasferirsi a Barcellona nel 1997), inizia nel 2013, sul terreno del teatro in cui danza, immagine in movimento, parola, costruzione plastica, concorrono alla composizione dello spettacolo. Il tema di Teatro Amazonas è lo sfruttamento della risorsa del caucciù in Amazzonia da parte degli Stati Uniti e di Henry Ford. Lo spettacolo vede in azione un narratore (Txalo) e le storie dei nativi (ai quali dà voce Laida) incontrati durante il viaggio di ricerca intrapreso per raccogliere documenti e testimonianze da rielaborare per lo spettacolo. Le storie del narratore e dei nativi corrono parallele, l’una rafforza l’altra nell’evidenziare le brutalità dei colonizzatori. Il linguaggio è molto efficace nell’esporre i misfatti delle milizie al servizio dei latifondisti che rapivano gli indigeni e li costringevano a lavorare nelle piantagioni di caucciù dove venivano uccisi e torturati. Pur conosciuti, questi fatti enunciati dai due performer colpiscono lo spettatore per l’efficacia plastica delle immagini che evocano nel trasmettere le violenze subite – «I religiosi furono molto crudeli con noi. Proibirono tutto e molti anziani morirono. Morirono di tristezza» (testo inedito).
Sulla parete di fondo della scena, su un telo bianco, sono proiettati parole, video, fumetti, foto, sequenze di film (come quelle tratte dal film Fitzcarraldo di Werner Herzog). Nei sette quadri-racconti che compongono lo spettacolo il narratore espone l’arrivo in Amazzonia di Orellana, lo scopritore del Rio delle Amazzoni, il fiume più grande e più pericoloso del mondo: con lui arrivarono i missionari, i commercianti, i militari e la schiavitù. 65 milioni di nativi morirono per epidemie o perché furono uccisi. Furono costretti a nascondersi nella foresta, “trasformandosi in giaguari”. A fine Ottocento, spiega il narratore, arrivarono in Brasile gli esportatori di caucciù dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, nacquero i primi latifondi e si diffuse la “Febbre del caucciù”: gli alberi incominciano a “sanguinare oro bianco” e la giungla fu invasa dalle milizie private dei proprietari che rapivano i giovani indigeni e li trasferivano nelle piantagioni dove li maltrattavano, torturavano e uccidevano. Uno dei quadri è dedicato al racconto della fondazione della città di Manaos, la Parigi dei Tropici, dove in pochi anni “crescono nella giungla” decine di ville, ampi boulevard, acquedotti, sale da ballo, club privati e tram elettrici. E un maestoso teatro d’opera, che diventa da subito il segno distintivo della nuova Manaos, prendendo a modello i grandi teatri d’opera d’Europa, dal Garnier di Parigi alla Scala di Milano. Nasce il Teatro Amazonas, riccamente addobbato e decorato in quanto il teatro era considerato un simbolo di civiltà, in grado di rinsaldare i rapporti con l’Europa.
A portare testimonianze sono chiamati alcuni storici di Manaos che espongono l’assurda vicenda di far interrare nella città i tanti fiumi sui quali era stata costruita per ottemperare a un principio di modernità che pretendeva di distruggere tutto ciò che era considerato “arcaico”, incluso la cultura rurale degli abitanti, gli orti che assicuravano la loro sopravvivenza. Viene raccontata la storia di Fermín Fitzcarrald che si intreccia con la storia del film di Herzog sull’impresa compiuta da questa figura. Nel film l’impresa, ossia trasportare una nave attraverso la giungla, viene ripetuta realmente, provocando molte vittime fra gli indigeni e un solco enorme nella giungla, per riuscire a far passare una nave sopra una montagna sfidando le leggi della gravità. Nello spettacolo la figura di Herzog, con la sua voce fuori campo, viene presentata come quella di un visionario non esente da colpa. L’istanza di grandeur della borghesia brasiliana è rappresentata dai due campionati mondiali di calcio organizzati in Brasile, quello del 1950, con la costruzione dello Stadio Maracanã di Rio de Janeiro, e quello recente del 2014, con l’inaugurazione dell’Arena Amazônia da parte del progressista Luiz Inácio Lula da Silva.
Interessante è esaminare il ruolo che la ricerca ricopre nella scrittura del testo e dello spettacolo stesso. Basandoci su quanto i due autori/performer dichiarano, si parte con il tracciare il territorio e il tema da indagare ricorrendo a ogni tipo di documenti e di fonti: biblioteche, Internet, archivi pubblici e privati, tesi dottorali, saggi, reportage giornalistici, interviste, dati statistici ufficiali e non, poesie, racconti, romanzi. Alla fase di raccolta della documentazione fa seguito la presa diretta, l’esplorazione del territorio, la ricerca sul campo, l’incontro e il confronto con le persone, la contemplazione dei diversi paesaggi in modo da capire «cosa significhi viverci per quelle popolazioni che ci abitano». «Noleggiamo un’automobile» – traggo queste citazioni da uno scambio privato con l’artista – «e per alcune settimane percorriamo il territorio in modo intuitivo e senza mete predefinite. Parlando con tutti, dagli attivisti agli autisti di Uber, dai politici agli archivisti». Non è dunque il metodo giornalistico dell’intervista ad essere utilizzato, bensì quello della conversazione. Alla fine del viaggio si dedicano a trascrivere tutto quello che hanno avuto modo di conoscere e di ascoltare direttamente e archiviano il materiale raccolto. Da qui il passo successivo è quello di scrivere il testo e di pensare contemporaneamente alle azioni nello spazio scenico.
Le prime azioni di Teatro Amazonas disegnano la pianta del territorio che lo spettacolo va ad esplorare: con del nastro adesivo blu Laida e Txalo tracciano il profilo ramificato del Rio delle Amazzoni e le loro azioni fisiche sono volte a costruire, con dei dei ritagli di cartone colorato, sagome di edifici industriali e foreste lungo il corso del fiume. Alla fine dello spettacolo ci rendiamo conto che i movimenti e le azioni dei due performer/narratori/autori hanno creato un’installazione in scena, colorata, plastica, compatta (fa venire in mente Ameba di Rem&CAP) che richiama un paesaggio desertico composto di, alberi smilzi, coni verdi, lastre azzurre.
La trilogia Pacìfico complessivamente si dà come teatro politico nel formato del teatro documentario e si colloca bene nel contesto del teatro dell’America Latina dove politico, sociale e artistico sono intimamente intrecciati e gli spettacoli teatrali affrontano temi legati alla storia locale, politica e culturale per cui il “fare teatro” agisce al centro della realtà sociale. Pensiamo alla compagnia cilena La Troppa che porta in scena il trauma della dittatura, al colombiano Mapa Teatro i cui spettacoli denunciano la complicità fra lo stato e le violenze sui civili delle organizzazioni parastatali. La Trilogia si situa altresì nel contesto del teatro documentario che storicamente nella sua genealogia ci rimanda a L’istruttoria (Die Ermittlung, 1965 ) di Peter Weiss composta con i verbali dei processi ai criminali nazisti. L’intento, sulla scia di Brecht, era quello di usare il teatro per scuotere lo spettatore a prendere posizione e agire per cambiare il mondo, anteponendo i fatti storici nella loro valenza di dati alla finzione della rappresentazione scenica e della recitazione. Interessante sarebbe confrontare le diverse strategie del teatro della realtà, ridefinito nel Nuovo Millennio come reality trend, la forma teatrale più diffusa internazionalmente che fonda la propria drammaturgia su procedimenti giornalistici, raccogliendo articoli di giornali, atti di processi, statistiche, testimonianze dirette, tutte fonti estranee al repertorio letterario.
Gli spettacoli della Trilogia Pacìfico sono definiti da Aszkona e Toloza una «investigación-performance» in cui l’equilibrio fra i dati della ricerca e il modo in cui vengono “messi in scena” si rafforzano l’un l’altro: né una spettacolarizzazione dell’inchiesta sociale (come si ritrova a volte negli spettacoli all’insegna del reality trend), né un depotenziamento della rappresentazione teatrale e dei suoi linguaggi. La valenza politica della Trilogia è data dal fatto che non fa un uso performativo degli avvenimenti storici che ricostruisce – come propone ad esempio Milo Rau in Gli ultimi giorni di Ceausescu (Die Letzen Tage der Ceausescus 2009-10): una strategia che vanifica il pensiero storico, in quanto tende a trasformare gli spettatori in testimoni dell’evento che ricostruisce (il processo militare che portò all’esecuzione del dittatore rumeno e di sua moglie).
«Quello che cerchiamo di fare», scrive Txalo, «è dare delle risposte non univoche alle domande da cui partiamo. E poiché non siamo obbligati a seguire un metodo scientifico, non adottiamo una prospettiva monodirezionale, ma accettiamo le contraddizioni. Queste ultime non ci preoccupano, ci lasciamo guidare dalle nostre domande alle quali cerchiamo una risposta». Il formato della investigaciòn/performance proposto con Teatro Amazonas permette di accettare anche il proprio disorientamento di fronte alla realtà indagata. E difatti Laida e Txalo si dichiarano «sconfitti»: «Ora quello che dobbiamo fare è tacere e ascoltare la natura e le creature con tutta l’attenzione possibile», dicono, consapevoli che i pregiudizi colonialisti sono profondamente interiorizzati.
Teatro Amazonas. Ideazione: Laida Azkona Goñi e Txalo Toloza-Fernández; ricerca documentaria: Leonardo Gamboa; scenografia: Xesca Salvà, MiPrimerDrop; suono: Rodrigo Rammsy; costumi: Sara Espinosa; luci: Ana Rovira; interpreti: Laida Azkona Goñi e Txalo Toloza-Fernández; produzione: Azkona & Toloza.