Negli ultimi cinquant’anni, il pastorello di Esopo pare aver gridato “Al lupo!” un po’ troppo spesso. Finché, con il passare dei decenni, tutto questo gridare ha finito con il gettare nella confusione più nera la mite popolazione del villaggio globale.

C’è chi, di fronte ai resti sanguinanti del povero trickster divorato dal lupo, si ostina a dire che il lupo non c’è, e che probabilmente non c’è mai stato. Il miglior trucco del diavolo è convincere il molto della sua inesistenza? Certo. Ma non è finita qui. Sul fronte opposto, infatti, troviamo sempre chi, gettando senza sosta benzina sul fuoco dell’emergenza politica, non perde occasione di gridare che il lupo c’è eccome, che c’è sempre stato, e che bisogna correre immediatamente al riparo. Non c’è bisogno di aggiungere che il pubblicizzatissimo riparo l’hanno costruito loro, e che l’ingresso si paga con la scheda elettorale. C’è persino chi sospetta che siano i lupi stessi a gridare “Al lupo!”, un po’ per screditare chi lo grida sul serio, un po’ per allontanare ogni sospetto da sé.

Insomma, nella Tana del Bianconiglio, l’unica cosa certa è la confusione. La confusione più nera, come dicevamo. Talmente nera che viene da chiedersi se non fosse proprio questo il piano dei lupi: produrre una confusione decisamente nera, nera come il manto del lupo stesso. Da Trump-Harris a Le Pen-Macron, da SPD-AFD a PD-Meloni, la monotona altalena della dialettica parlamentare scandisce sempre lo stesso ritmo. Il fascismo non c’è, dice la far right: è un relitto del Novecento. Il fascismo è sempre dietro l’angolo, dicono i (neo)liberaldemocratici, mai stanchi di agitare lo spauracchio del peggio nel goffo tentativo di legittimare il “meno peggio”. È un ordine del discorso fatalmente ricorsivo, cortocircuitato, nel cui specchio pare riflettersi un vero e proprio cortocircuito politico. 

Da qui l’urgenza assoluta – avvertita, negli ultimi vent’anni, a pressoché tutte le latitudini geografiche e teoriche e in ogni sfumatura dello spettro politico della sinistra globale – di ricodificare radicalmente il discorso critico sul fascismo. Il fascismo-anni trenta non è il fascismo di oggi, né il fascismo dell’altro ieri. Farne la cartina al tornasole del fascismo tout court significa mistificare la politica, mitizzare la storia. È da qui che prende le mosse Alberto Toscano, teorico radicale tra i più originali dell’ultimo decennio, nel suo Tardo fascismo. Le radici razziste delle destre al potere. Non c’è un fascismo essenziale, “eterno”, che, misteriosamente scomparso dietro le quinte della storia nel 1945, potrebbe in ogni istante tornare in scena strisciando. E se non può tornare è anzitutto perché non se n’è mai andato. Ma procediamo con calma.

Ecco il paradosso: il fascismo c’è sempre e c’è sempre stato, ma non per questo si può parlare di un fascismo meta-storico. In fondo, si tratta di un problema di ontologia politica: Che cos’è il fascismo? Ma soprattutto: C’è o non c’è del fascismo? Vengono in mente i lavori di Furio Jesi sulla cultura di destra, a cui Toscano dedica un capitolo centrale di Tardo fascismo. Cinquant’anni fa, infatti, Jesi ipotizzava che l’ordine del discorso fascista si reggerebbe su simili aut-aut ontologici. Il fascismo c’è o non c’è? Alludendo a una spettrale identità meta-storica del fascismo, domande del genere mistificano l’intera faccenda, oscurando il vero problema. Non l’esserci o il non-esserci del fascismo, ma le modalità di funzionamento, le strategie di innesto e di riconfigurazione di tutta una serie di fascismi. Il fascismo non è qualcosa che c’è o non c’è, ma anzitutto qualcosa che diviene, un «processo» che può essere indagato solo nella «longue durée, così da assumerlo all’interno di una dinamica che precede la sua definizione» (Toscano 2024, p. 7).

In questa prospettiva, il fascismo degli anni trenta non appare più come l’origine del tardo fascismo di oggi. Basta con l’analogismo storico. Come diceva Enzo Melandri, che di analogie se ne intendeva, l’analogia non può dirci nulla sulla genesi, sulla radice davvero politica di un fenomeno. Così, l’origine del fascismo deve cessare di apparirci come qualcosa di isolabile lungo la cronologia: 1922-45. Bisogna, invece, come fa Toscano, saperla far correre lungo le più svariate diramazioni di una genealogia foucaultianamente attraversata da conflitti, catture, prese e riprese. Così suona la tesi cruciale di Toscano: c’è un fascismo dopo il fascismo, certo, ed è il tardo fascismo neoliberale di oggi; ma c’è anche un fascismo prima del fascismo, ed è l’insieme di pratiche disciplinari (predatorie, giuridiche, penitenziali, pedagogiche, retoriche) che segnala da sempre la sanguinosa performance del «fascismo razziale» (Baraka 1997, p. 78) che attraversa la storia del colonialismo. Ecco perché negli Usa degli anni trenta, le soggettività razzializzate potevano liquidare con un sorriso lo stupore del bianco di fronte all’ascesa del fascismo in Europa. «In America – scriveva il poeta Langston Hughes nel 1937 – i negri non hanno bisogno che si dica loro cos’è il fascismo in azione. Lo sappiamo. Le sue teorie di supremazia nordica e di annullamento economico sono da tempo una realtà per noi» (p. 272).

Nella lucida analisi di Toscano, la tesi classica di Polanyi, secondo cui il “virus fascista” si anniderebbe da sempre nel cuore del capitalismo, si incrocia con la tradizione radicale nera che, da Padmore a Césaire fino a Cedric Robinson, ha dimostrato come il regime disciplinare del capitalismo coloniale avrebbe gettato le premesse del fascismo europeo. E non solo. Dalle miserie della predazione coloniale, infatti, sarebbe nato soprattutto il fascismo americano degli anni sessanta e settanta. La domanda-chiave, formulata da Toscano sulla scia di Angela Davis e del Black Panther di George Jackson, suona: «Che cosa accadrebbe alla nostra concezione del fascismo e dell’autoritarismo se prendessimo le mosse non da analogie prese in prestito dalla scena europea tra le due guerre, ma, ad esempio, dalla materialità del complesso carcerario-industriale, dal “cemento e l’acciaio”, dai dispositivi e dal personale di sorveglianza e repressione?» (2024, p. 40).

Lungo la direttrice tracciata da Toscano – che, dal fascismo bianco, procede verso il fascismo razziale – le nostre arrugginite concezioni di fascismo, repressione e violenza politica lasciano finalmente spazio al vero problema del fascismo. La prima conseguenza è una cruciale ricodificazione dell’intera sfera politica. Il fascismo, qui, non appare più tanto come problema strettamente politico – programma di partito, stile politico improntato al golpismo, stato di polizia, ecc. –, né come epifenomeno delle crisi organiche del capitale. Il problema, come George Jackson cercò invano di spiegare a un compagno della vecchia guardia marxista, diventa anzitutto sociale. Lo spostamento d’asse è evidente quando, con De Bois, si considera il caso esemplare del “salario psicologico” del lavoratore bianco. I vettori di inclusione nel campo sociale passano, certo, per i canali economici, come il salario. Ma, a parità di stipendio, l’operaio bianco passerà tranquillamente un fermo di polizia, mentre il suo collega nero rischierà ogni volta la vita. Oggi come ieri, con gli omicidi di Stato di George Floyd a Minneapolis, di Nahel a Nanterre, di Ramy a Milano, e con l’infinita schiera dei “suicidi” nei CPR, la realtà della repressione sociale sembra essersi impegnata a verificare con la precisione più brutale l’ipotesi del fascismo razziale.

Nel fascismo iperpolitico, sociale e razziale, la posta in gioco è sempre stata la vita. Dalle colonie alle metropoli USA, dagli apparati di Stato europei degli anni trenta al neofascismo degli anni settanta e alla far-right di oggi, il fascismo è sempre stato una questione biopolitica, dal punto di vista del bianco – tanatopolitica, dal punto di vista del nero. Non lo si potrebbe dire meglio che con le parole del film Boyz n the Hood- Strade violente (1991). Alle gang del ghetto nero di Los Angeles, Laurence Fishburne, in un memorabile monologo, spiega: “Sapete perché in ogni angolo del ghetto c’è un negozio di armi e uno di liquori? Ve lo dico io perché. Perché vogliono che ci ammazziamo tra noi”. 

Con uno shift metodologico davvero decisivo, Toscano ci obbliga a spostare lo sguardo dagli anni trenta agli anni settanta. È qui che emerge il doppio volto del fascismo che dovrebbe esserci tanto fatalmente familiare. Così, ci accorgiamo che la tanatopolitica razziale fascista USA non è che il rovescio della biopolitica fascista europea. A ben vedere, in entrambi i casi abbiamo a che fare anzitutto con fascismi micropolitici: l’idea, più deleuziano-guattariana che foucaultiana, di un fascismo strisciante e molecolare, un fascismo-protocollo di soggettivazione, un fascismo-macchina anziché un fascismo-partito, un fascismo-stato o un fascismo-dittatura. La domanda che sta al centro di Tardo fascismo diventa, dunque: in che modo il fascismo può far funzionare un insieme di ingranaggi statali, sociali, psichici? In questa prospettiva, la proverbiale inconsistenza della teoria fascista – spesso ridicolizzata da sinistra – diventa un punto di forza del fascismo stesso. Il fascismo come politica senza teoria; macchina fascista senza manuale di istruzioni. Ecco perché è così difficile decifrarla. Ed ecco perché può ri-territorializzare il campo sociale integralmente de-territorializzato del capitalismo: un campo fatto di temporalità plurali, forme di vita eterogenee, ordini del discorso incompatibili ma coesistenti.

Tra i meriti dell’analisi di Toscano, c’è senza dubbio un deciso riorientamento del discorso sul fascismo in chiave micropolitica, macchinica, libidinale. Con un tour de force attraverso le concezioni antifasciste di Bloch, Marcuse, Reich, Foucault, Deleuze e Guattari, Toscano individua un punto chiave: come ogni macchina di potere, la macchina fascista non si limita a proibire, reprimere o negare. Essa funziona finché produce: forme di vita, apparati di potere, istituzioni, pratiche e discorsi. E lo fa finché è in grado di intercettare effettivamente i flussi di desiderioCome diceva Reich, le masse non sono state ingannate: hanno davvero desiderato il fascismo! In gioco, nella soggettivazione fascista, c’è tutta un’economia libidinale: individuazione sessuale, distribuzione infinitesimale del potere nel campo sociale fascista, eros mortifero, familismo edipizzante, legge del Padre.

Che il fascismo libidinale possa funzionare in modo veramente macchinico, poi, lo dimostra il fatto che la stessa macchina fascista che, negli anni trenta, intercettava le eccedenze di libido sociale (nelle forme, ad esempio, dello pseudo-insurrezionalismo o della “mobilitazione totale”), oggi può funzionare perfettamente nelle condizioni opposte: nel regime di psicodeflazione che Toscano, in uno dei capitoli più notevoli del libro, chiama «cattedrali della miseria erotica» . In condizioni simili, si tratterà anzitutto di solleticare le passioni più tristi, di riattivare sempre di nuovo la logica del capro espiatorio. Così, se il maschio bianco etero-cis non è più capace di godere, desiderare, abitare mondi, ricombinare forme di vita, ciò non dipenderà dal fatto che la codificazione libidinale che l’ha prodotto, oggi, può esistere soltanto in modo puramente residuale, simulacrale e reattivo. La colpa sarà, piuttosto, dei più disparati «ladri del godimento» (ivi, p. 165) (ebrei plutocrati, musulmani, élite liberali metropolitane, madri nere nei programmi di welfare, donne trans, ecc.): «Per l’immaginario fascista – scrive Toscano – senza la loro eliminazione o repressione, nessuna rinascita istituzionale e nessuna rivoluzione riparatrice è possibile» (ibidem).

Se il fascismo micropolitico e molecolare è essenzialmente generativo, come si presenterà il fascismo macropolitico e molare? In che modo la macchina fascista produrrà effetti di potere complessivi, proiettandosi sul piano dello stato? A questo punto, Toscano si imbatte in un mito arrugginito quanto persistente. È il mito di una “statolatria” fascista – per impiegare una delle tante parole vuote coniate da Giovanni Gentile – punto per punto contrapposta alla statofobia neoliberale, allo stato minimo del laissez faire. Se, dopo il corso che Foucault tenne al Collège de France nel ’78-’79, la microfisica del potere neoliberale – che disinnesca la trascendenza del potere dello stato soltanto per disseminarlo ovunque nel corpo sociale, attraverso la teoria e la pratica del potere come management – si lascia riconoscere facilmente, lo stesso non può dirsi della microfisica fascista. Sulla scorta degli studi di Johann Chapoutot sull’origine nazista delle teorie del management del dopoguerra, Toscano ha buon gioco nell’individuare la convergenza del discorso nazista-völkisch della libertà tedesca e della dottrina neoliberale. Lo stato fascista è tanto poco «totalitario» e negatore, quanto poco lo stato neoliberale è «minimo» e affermativo. In entrambi i casi, la prestazione centrale dell’apparato di stato sarebbe piuttosto la promozione di una libertà sui generis, ricodificata come principio di prestazione (Leistungsprinzip). Non più stato totalitario, dunque, ma «stato-macchina, il cui rendimento si misura in base all’efficienza» (ivi, p. 76).

Con la sua inchiesta sul fascismo molecolare, Toscano fa piazza pulita di tutta una serie di mitologie politiche. Dietro il fascismo-essenza, il fascismo storico, il fascismo totalitario, il fascismo diabolus ex machina, riusciamo ora a distinguere nettamente le movenze insidiose della macchina fascista. È una macchina capace di riassemblare i propri pezzi, di innestarsi su assemblaggi sociali più vasti, di ricalcolare le proprie traiettorie e, soprattutto, di regolare minuziosamente le iniezioni di paranoia nel campo sociale. Nella consapevolezza dell’infinita capacità di ricombinazione della macchina fascista, Tardo fascismo la smonta pezzo per pezzo, tracciando ciò che l’ingegneria meccanica chiamerebbe uno “schema esploso” del fascismo. A chi legge, viene così presentato lo schema di funzionamento di ogni singolo ingranaggio – dal razzismo alle strategie di governance, dall’omotransfobia ai regimi comunicativi. Con un’avvertenza speciale: la macchina fascista, infatti, può funzionare soltanto in coppia con la macchina-capitale o, piuttosto, come suo ingranaggio. Ecco perché, per dirla con Toscano, «chi non è disposto a parlare di anticapitalismo dovrebbe tacere anche di antifascismo» (ivi, p. 172). Senza questa precauzione, la teoria e la pratica antifascista restano condannate alla neutralizzazione politica o, peggio, alla cattura e al recupero all’interno di nuovi assemblaggi fascisti.

Riferimenti bibliografici
A. Baraka, Black Reconstruction: Du Bois & the U.S. Struggle for Democracy & Socialism, in “Conjunctions”, n. 29, 1997.
L. Hughes, Too much of a race, in “Crisis”, n. 44, vol. 9, 1937.

Alberto Toscano, Tardo fascismo. Le radici razziste delle destre al potere, DeriveApprodi, Bologna 2024.

Tags     Biopolitica, fascismo
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