Il rapporto fra letteratura e teatro, trascorsi gli anni della conflittualità in cui è stato necessario affermare l’autonomia dello spettacolo rispetto alla dominanza del testo, nel Nuovo Millennio si pone in termini di parità delle diverse materie espressive: spazio, attore, suono, luce, testo verbale, possibili dispositivi costruttivi dello spettacolo. In Sylvie e Bruno l’autorialità di Chiara Lagani si dispiega in più funzioni: ha tradotto il romanzo di Carroll, è una delle due attrici in scena, ha curato il passaggio dalla pagina allo spazio scenico insieme a Luigi De Angelis (regia, luci) e al gruppo compatto dei performer formato, oltre che da Lagani e Cavalcoli, da Andrea Argentieri, Roberto Magnani, Elisa Pol. Inoltre, l’utilizzo di romanzi come fonte letteraria per lo spettacolo è una pratica consolidata per Fanny & Alexander. Nella loro teatrografia infatti troviamo scrittori come Nabokov, Ferrante, Levi, Foster Wallace, Baum. Affiancare al lavoro di dramaturg quello di traduttrice del testo su cui si è costruito lo spettacolo manifesta una sua organicità, in quanto il processo di traduzione da una lingua a un’altra per Chiara Lagani non è dissimile dall’allestire uno spettacolo, richiedendo entrambe le attività un mettersi in ascolto della voce dell’autore/autrice, tracciare i collegamenti fra le parti delle storie, visualizzare ambienti e figure.
Tale relazione si fa più stretta con uno scrittore come Carroll perché il suo procedimento di scrittura passa per il racconto orale, nel senso che lui stesso recitava di fronte a gruppi di bambini le storie che inventava e solo dopo passava a fissarle sulla pagina. Questo metodo è simile a quello di chi scrive testi teatrali che trovano la loro genesi con gli attori nello spazio scenico. Scrive Lagani: «Il suo è un reale laboratorio di scrittura, costellato da vere e proprie “prove teatrali” durante le quali il reverendo Dodgson si lancia, nei salotti delle case e nelle scuole, in spericolate performance vocali, dando virtuosisticamente voce ai vari personaggi (soprattutto allo sgrammaticato Bruno) con grande diletto del suo giovane pubblico» (Lagani 2021, pp.V-XXXV). Il lavoro di dramaturg di Lagani passa dunque attraverso il suo lavoro di traduzione del testo ed entrambi poggiano sull’oralità, nel senso che, grazie alla sua pratica teatrale, la scrittura letteraria assume una dimensione plastica e contemporaneamente la scrittura scenica, innervata profondamente dal piacere del testo, si installa come scrittura vocale, dunque la parola scritta è ricondotta alla sua radice di pneuma. La scrittura vocale fisicizza la voce attoriale nel tentativo di riagganciare la parola alle sue radici corporee e pulsionali.
Quale funzione svolge il romanzo Sylvie e Bruno nella composizione dello spettacolo? L’operazione è complessa: escludendo di procedere nell’operazione improba della comparazione fra testo e spettacolo, ci chiediamoci cosa ritroviamo nello spettacolo dei mondi di Carroll, in cui – come scrive Lagani nella prefazione al romanzo – reale (la società vittoriana di fine Ottocento) e simbolico slittano l’uno nell’altro come succede alle identità dei personaggi, agli oggetti e ai luoghi. Proviamo a rintracciare come nello spettacolo questi scivolamenti prendono forma.
Il romanzo racconta due storie in parallelo: una contrastata vicenda d’amore e una storia «magica» di cui Sylvie, una bambina, e l’infans Bruno, suo fratello, sono i protagonisti. Questi si relazionano con altre figure: l’alter ego adulto di Bruno, Arthur Forester e quella di Sylvie, Lady Muriel Orme, che ha un fidanzato, Eric Lindon. Fra il mondo della favola dove dimorano fate e bambini, professori e governatori e il mondo reale con giardini, salotti e rito del tè, si inerpica il narratore, che cerca un raccordo fra questi balzi e sbalzi di tempo e spazio.
Lo spazio scenico disegnato dallo spettacolo si dilata in lunghezza e in larghezza, brilla per nitore, tirato a lucido dalle luci (un cerchio rituale è disegnato a terra), attraversato in tracciati geometrici dai tre attori e dalle due attrici con i loro abiti colorati (fucsia, celeste, rosso) che utilizzano come unici oggetti delle sedie/panche su cui si dispongono frontalmente agli spettatori, in uno spazio animato da voci e suoni che provengono da fonti diverse (fuori campo, dal vivo, eterodirette). I continui passaggi fra azione, descrizione, racconto sono sostenuti dal dispositivo del remote acting, un elemento drammaturgico propriamente sperimentato, teorizzato e anche codificato – dopo tanti spettacoli – della pratica teatrale e dell’estetica di Fanny & Alexander. È questo “essere detto nel dire” che fa sentire le vibrazioni e le intonazioni del testo di Carroll, respirando nello spettacolo, nella composizione ariosa e musicale, nel suo procedere per duetti, assoli, quartetti, quasi un “recitar cantando”.
I movimenti delle due attrici e dei tre attori nello spazio nitido allestito in uno dei capannoni dell’Almagià a Ravenna si accordano con le stratificazioni della storia che nello spettacolo è sia narrata da voci fuori campo che drammatizzata, descritta in terza persona (“Lei è l’eroina”), sia dialogata che commentata (“Tutto cambia in continuazione, qui”). Anche il ruolo di testimone-narratore non è fisso, ma trapassa, “a staffetta”, all’altro attore, come dal sogno alla realtà (“Adesso ti racconto una storia”) e gli spettatori sono trasportati in una piazza dove tanta gente infuriata si è radunata per protestare. Poi l’azione si trasferisce su un treno dove i passeggeri conversano, qualcuno ha paura delle gallerie e il governatore parla di rivoluzione. Seguendo il registro della favola compaiono elefanti, gli uomini si trasformano in porcospini (il cattivo Uggug), appaiono anche un cantante, un giardino e un giardiniere che apre la porta del muro di cinta. Nell’oscillazione fra i due mondi non si è mai sicuri se si vede realmente o se si vede in sogno, se i mendicanti sono due o uno solo. Si lanciano domande: “Cosa accade al tempo sprecato?”. E ritornano risposte: “Non torna indietro”, “ Il tempo è uscito dai cardini”. Come si potrebbero immaginare gli esiti di queste storie? Viene lanciata una richiesta: “Qualcuno ci aiuti a concludere questa storia”.
Potremmo sostenere la tesi: la realtà non è meno inafferrabile del sogno. Come nel mondo magico è avvenuto un colpo di Stato, nel mondo reale «al culmine della storia, infuria una terribile misteriosa febbre, simile alla pandemia di questi nostri giorni». Il romanzo e lo spettacolo fanno dell’infanzia una risorsa rigenerante per il mondo adulto, nel senso che la relazione adulto-bambino rientra nella dinamica di mondi che slittano fra favola e realtà, umano e animale, malvagio e buono. La lingua sgrammaticata di Bruno è il linguaggio deragliato del Finnegan’s Wake di Joyce, salta i nessi logici, causali e temporali, gira al contrario, prende un treno per non partire. La folla che protesta inverte le sue rivendicazioni: “Più tasse! Meno pane!”. Marco Cavalcoli smozzica le frasi, ingarbuglia le parole, compone un ammasso di suoni consonantici impronunciabili. Con il suo manipolare il linguaggio, ribaltarne il senso, capovolgere il dritto in rovescio, Carroll-Lagani, il romanzo e lo spettacolo, mescola e mette in subbuglio l’ordine delle cose, come fanno i bambini, dalla cui prospettiva gli adulti dovrebbero posizionarsi.
Riferimenti bibliografici
C. Lagani, Prefazione, in L. Carrol, Sylvie e Bruno, Einaudi ,Torino 2021.
Sylvie e Bruno. Testo: Lewis Carroll (liberamente tratto da); ideazione: Luigi De Angelis, Chiara Lagani; regia, scene, luci: Luigi De Angelis; drammaturgia e costumi: Chiara Lagani; musiche e sound design: Emanuele Wiltsch Barberio; interpreti: Andrea Argentieri, Marco Cavalcoli, Chiara Lagani, Roberto Magnani, Elisa Pol; produzione: Fanny & Alexander, E Production, Ravenna Festival.