La prima sequenza di M – il mostro di Düsseldorf di Fritz Lang (Germania, 1931) è nota per essere uno dei casi più sofisticati di uso del fuoricampo (e del suono off) nella storia del cinema. L’assassino che si aggira per la città e che rapisce e uccide bambine indifese viene presentato allo spettatore attraverso una serie di soluzioni differite. Non lo si vede mai in volto, ma se ne percepisce la presenza ai margini dell’inquadratura grazie, ad esempio, all’ombra del suo corpo proiettata su un manifesto della polizia, oppure a un motivetto che fischietta quando è in cerca di una nuova preda, alle filastrocche cantate dai bambini nei cortili, ai dialoghi tra le mamme preoccupate, e soprattutto ai dettagli di un palloncino che si impiglia sui fili del telegrafo, oggetto metonimico che rimanda al destino funesto della sua ultima vittima, la piccola Elsie. «A causa della natura ripugnante del crimine di cui si occupa M – ricordava Lang in un articolo del 1947 – c’era il problema di come presentarlo in modo che non nauseasse il pubblico e al tempo stesso avesse il massimo impatto emotivo. Ecco perché ho dato solo indizi […] costringendo ogni singolo spettatore a elaborare i raccapriccianti dettagli dell’omicidio secondo la propria immaginazione» (Eisner 1976, p. 123). Nella sua natura allusiva, l’incipit di M si rivela come uno straordinario esempio di potere perturbante del cinema, una forza espressiva capace di tradurre l’indicibile in invisibile (e viceversa), facendone tuttavia percepire la presenza minacciosa e pervasiva.

Nel suo ultimo lavoro, Un semplice incidente (Yak taṣādof-e sāde, Iran/Francia/Lussemburgo, 2025), Palma d’oro al 78º Festival di Cannes, Jafar Panahi si trova a raccontare un episodio analogo, facendo tesoro della lezione del regista tedesco. In questo caso, il mostro è un agente dei servizi segreti, Eghbal (soprannominato «Gambadilegno»), reo di aver torturato in carcere diversi prigionieri politici. All’inizio del film nulla è dato sapere della sua identità o delle sue azioni crudeli. D’altra parte, anche gli ex detenuti non conoscono il suo volto, essendo stati bendati prima di subire violenza e potendolo «riconoscere» solo da elementi indiziari come la voce, l’odore o un altro segno distintivo, una protesi alla gamba che produce uno strano cigolio quando cammina. È in effetti ciò che capita a uno di essi, Vahid, che si imbatte per caso nell’uomo dopo un banale incidente automobilistico e si trasforma a sua volta in carnefice: lo insegue con il furgone, lo rapisce, lo chiude in un baule, cerca di seppellirlo vivo nel mezzo del deserto, prima di fermarsi, immobilizzato dal dubbio: e se avesse sbagliato persona? Per fugare ogni incertezza, chiama a raccolta altri ex compagni di cella – Shiva, una fotografa di matrimoni, Golrokh, una ragazza che sta per sposarsi con Alì, e Hamid, un operaio iracondo – e insieme decidono il da farsi. Dopo lunghe discussioni che fanno emergere le loro diverse indoli, i quattro giurati di questo strano tribunale del popolo – simile, peraltro, a quello composto da criminali e prostitute nell’epilogo di M – si convincono finalmente della sua identità, ma non si risolvono nel fissare la punizione da infliggergli, certi di condizionare le esistenze di altri innocenti (la moglie che ha appena partorito e la loro primogenita di sei anni) ma, soprattutto, temendo per la propria: se scoperti, Vahid e i suoi amici sarebbero arrestati e subirebbero probabilmente altre violenze.

Il mexican standoff etico a cui Panahi costringe, poco per volta, i suoi personaggi (e lo spettatore) va di pari passo con la loro condizione di cecità: nessuno di essi, compresi Eghbal e la sua famiglia, può fare affidamento su ciò che vede e dunque avanza per tentativi e approssimazioni, per menzogne e salti nel vuoto. È uno stallo che serve a illuminare progressivamente un’altra presenza nell’ombra, invisibile e indicibile, ma sempre più pervasiva: quella del regime costituito. A differenza di quanto capita in M, dove l’assassino è un reietto, messo ai margini dalla comunità e da questa catturato e processato, in quello di Panahi il «mostro» in realtà è la stessa società – o, meglio, chi la governa – perché costringe vittime e carnefici, ma anche corrotti e corruttori, a un continuo scambio delle parti in commedia. Hanno ragione, da questo punto di vista, Roy Menarini o Dario Cecchi a definire Un semplice incidente come una «tragicommedia», ovvero una storia che «in sé resta tragica, ma [che] viene narrata attraverso il dispositivo della commedia», a patto tuttavia di riconoscere nel registro «leggero» un veicolo beffardo e amaro – dunque ancora più opprimente – per rendere i personaggi implicati e responsabili, come se vestissero tutti i panni del venditore cieco di palloncini di M, involontari ingranaggi di un meccanismo che si alimenta con la violenza e la sopraffazione (si veda in particolare la figura di Hamid, la più esemplare in tal senso) .

Si diceva della lezione di Lang. Anche il film di Panahi lavora con grande abilità sulla forza immaginativa del fuoricampo, abbinato ad altre due strategie espressive che in qualche modo ne intensificano l’efficacia: l’ellisse e il long take. Si ricorderà che il film inizia proprio con un piano-sequenza di cinque minuti che riprende, in primo piano, Eghbal mentre guida la sua automobile. Non sappiamo ancora chi sia, ma lo vediamo scambiare due parole con la moglie, sorridere alla figlia che compare improvvisamente da dietro un sedile, frenare dopo un violento sobbalzo del veicolo, uscire dall’abitacolo, accorgersi di aver investito un cane – di cui non vediamo il corpo esanime, ma di cui ascoltiamo i guaiti – e riprendere silenziosamente la strada, con la figlia sconvolta che lo accusa di aver ucciso apposta l’animale. Come con Elsie, assistiamo all’uccisione di una vittima innocente in off-screen, anche se in questo caso possiamo osservare il volto impassibile dell’assassino. C’è da dire che da quel momento in avanti, e in particolare da quando il testimone della narrazione passa nelle mani di Vahid, il torturatore viene progressivamente posto ai margini e poi ancora all’esterno dell’inquadratura, diventando sostanzialmente una presenza invisibile. È in parziale o completo fuoricampo quando entra nell’officina perché l’auto è in panne, quando viene colpito con la portiera e poi rapito, o quando viene lanciato in una fossa e quasi inumato vivo. In un altro long take di quasi sette minuti, collocato a metà del film e ambientato nel deserto, durante il quale i quattro ex detenuti raccontano alcuni degli episodi di violenza subiti, egli è narcotizzato e chiuso in una sorta di bara, presente-assente, dentro lo spazio angusto di un baule che è, al contempo, un fuoricampo interno all’inquadratura, in una condizione di impotenza fisica che fa il paio però con la sua potenza simbolica, quella che rende inermi e indecise gli ex attivisti. Quanto alle ellissi, il loro frequente utilizzo determina costanti e improvvisi avanzamenti temporali che non solo eludono alcuni passaggi logici del racconto (ad esempio il viaggio nel deserto di Vahid e dei suoi amici e la scelta del luogo dove interrare Eghbal), ma richiamano costantemente l’irrappresentabilità e la stessa indicibilità delle torture subite.

C’è, insomma, lungo tutto il tragitto filmico, una costante allusione all’imponderabile e al rimosso, al differito e all’indiziale che rende Un semplice incidente tutt’altro che semplice e tutt’altro che incidentale nelle forme di configurazione del potere e delle sue perversioni. Si pensi all’ultima situazione epifanica messa in scena, ovvero quando Eghbal viene condotto, calata ormai la sera, su una collina vicino a Teheran e interrogato da Vahid e Shiva, a preludio della sua esecuzione o della sua liberazione. Ripreso una seconda volta in primo piano, grazie a un altro long take di dodici minuti, legato a un albero e bendato, illuminato dalla luce rossa dei freni del furgone (le stesse luci avevano illuminato il suo volto quando aveva osservato il cane agonizzare all’inizio del film), l’uomo finalmente cede alle pressioni e alle insistenze della coppia e ammette le sue colpe. Se avviene una sorta di contrappasso che rende indistinguibili vittime e carnefici, ciò dipende non dal contenuto dell’inquadratura (la sua confessione), ma dal suo rimosso, in quel fuoricampo infinito di torture e abusi che grava sui protagonisti e che forse Pascal Bonitzer avrebbe definito come un «campo cieco». Commentando un altro film incentrato su un mostro, Lo squalo (Jaws, Usa, 1975) di Steven Spielberg, il critico francese definisce «lo spazio off, il campo cieco [ovvero] tutto ciò che brulica all’esterno o sotto la superficie delle cose» (Bonitzer, 1982, p. 96) e che rappresenta «il punto d’orrore» di un’immagine, perché «acceca» chi guarda, fa paura perché non si vede, producendo inquietudine, desiderio e una minaccia latente. Ecco, di fronte a questa infinita e spossante confessione, per usare le parole già citate di Lang, lo spettatore si trova costretto «a elaborare i raccapriccianti dettagli» di ogni violenza fatta e subita dai protagonisti «secondo la propria immaginazione». E ne resta fatalmente implicato.

Chiudo sottolineando come quest’ultima opera di Panahi vada in sostanziale controtendenza rispetto alla sua più recente filmografia. Da This Is Not a Film (In film nist, Iran, 2011), a Taxi Teheran (Taxi, Iran, 2015), da Tre volti (Se rokh, Iran, 2018)al più recente Gli orsi non esistono (Khers nist, Iran, 2022), egli aveva messo in scena la propria condizione di regista dissidente, sotto controllo o sotto processo, assumendo su di sé, o meglio sul proprio corpo esposto davanti alla macchina da presa, il principio di visibilità da cui il cinema non può prescindere se intende raccontare il presente. Un semplice incidente sceglie invece di compiere una sorta di passo indietro, se non altro perché lavora per sottrazione e allusività, ma anche perché sembra recuperare «nostalgicamente» una serie di elementi espressivi che hanno caratterizzato la narrazione per immagini nella sua stagione classica e moderna e che non sempre si ritrovano nei film contemporanei. Affidarsi all’invisibile, all’assente, all’ombra, all’immaginario, insomma a tutta la forza espressiva del fuoricampo, non è solo un modo efficace per evocare gli aspetti più pervasivi e coercitivi di un potere in atto, ma è anche un modo per tornare a fidarsi del carattere intimamente teorico del film, quello più impalpabile e dunque più bisognoso di analisi e ponderazione. Un semplice incidente è, in altri termini, un film che sarebbe piaciuto a un’intera generazione di studiosi, da Bonitzer a Marc Vernet, da Noël Burch a Stephen Heath, da Jacques Aumont a Michel Chion, proprio perché dimostra una fiducia «cieca» nelle possibilità salvifiche del cinema.

Riferimenti bibliografici
J. Aumont, L’immagine, Lindau, Torino 2007.
P. Bonitzer, Le champ aveugle : Essais sur le réalisme au cinéma, Cahiers du cinéma, Parigi 1982.
N. Burch, Prassi del cinema, Il Castoro, Milano 2000.
L.H. Eisner, Fritz Lang, DaCapo Press, New York 1976.
M. Vernet, Figure dell’assenza. L’invisibile al cinema, Kaplan, Torino 2008.
V. Zito, Visioni di contrabbando: il cinema inarrestabile di Jafar Panahi, Digressioni Editore, Milano 2020.

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