Nella vita di coppia le turbolenze possono soffiare come delle folate passeggere che richiamano l’attenzione e ridestano un interesse altalenante, in un momento in cui la passione annaspa tra gli imprevisti della quotidianità, orientata in maniera spesso totalizzante verso la propria attività lavorativa e “creativa”; o possono invece divenire strutturali, fino a rendere intollerabile la convivenza. Oppure le due tendenze possono coesistere, marcando ogni giorno la conferma di un’unione che è sempre “a venire”. Così accade a Chris (Vicky Krieps) e Tony (Tim Roth), una coppia di registi che ha ottenuto una residenza artistica sull’isola di Fårö per sviluppare i loro rispettivi progetti.

Lui è un sessantenne affermato, un autore celebrato, dalla carriera pluridecennale, che viene invitato a prendere parte attiva alla “Bergman Week” – dove mostra uno dei suoi film, il cui stile ricorda l’Assayas degli anni ’90 – che ogni anno anima quel luogo ctonio e tarkovskianamente “oceanico”. Lei è una giovane regista in fase di stallo che trova rifugio nel mulino – che, come nell’epilogo di Sorrisi di una notte d’estate (Bergman, 1955), diviene simbolo dell’incostanza e della mutevole natura umana – situato dirimpetto alla dimora in cui il cineasta svedese ha girato Scene da un matrimonio (Bergman, 1973), “il film che ha fatto divorziare milioni di persone”, eludendo così la voracità egocentrica del marito che colonizza ogni angolo della casa con leggiadra noncuranza. Tony conosce a menadito la filmografia bergmaniana e non ha più voglia di sottoporsi alla straziante visione de Il settimo sigillo (1957) che invece Chris non ha mai visto. Autrice ancora poco nota ai non addetti ai lavori, Chris osserva da una distanza di sicurezza la routine del marito – provando a non rimanerne travolta –, soprattutto quando lui indossa i panni del regista di culto, accerchiato da un coro di fan tanto zelanti quanto frettolosi che sembrano volerlo “divorare”, come succedeva al pittore Johan ne L’ora del lupo (Bergman, 1968). Il mondo artistico del marito le è di fatto precluso, custodito com’è in un taccuino da cui solo in rari casi si separa, mentre su di lei incombe il ruolo di spalla al quale è insofferente, tanto da spingersi a sentenziare sulla vita privata di Bergman, salvo poi sospendere il giudizio sulla persona e tornare alle opere dell’autore che tanto ammira.

Attraverso il viaggio di lavoro di Chris e Tony, Hansen-Løve esplora Fårö restituendo immagini completamente diverse rispetto a quelle scolpite nella memoria visiva di ogni cinefilo, a partire dalla scelta di girare in formato Scope, mai impiegato da Bergman che, dal canto suo, ha sempre prediletto formati più “quadrati” e chiusi (su tutti l’1.37: 1). Il settimo lungometraggio di Mia Hansen-Løve è un film dalla duplice anima che ambisce a far incontrare, fino alla convergenza, il «documento» e il «sogno» (Bergman 2008, p. 71). Sull’isola di Bergman è infatti un film di sconfinamenti e scavalcamenti di campo, di (inevitabili) rimandi e prese di posizione; un’opera che mette in moto un meccanismo di compensazione a partire dallo scarto tra i due filoni narrativi che la compongono, nonché tra l’immagine e la parola: la prima più disinibita e carnale, la seconda più pudica e ingessata.

È proprio questo paesaggio a farsi carico delle mancanze, dei “vuoti” di Chris (la figlioletta rimasta a casa con la nonna; il marito assorbito dal proprio lavoro; l’ispirazione latitante), ma altresì a scatenare le doti plastiche insite nello sguardo “documentario”, dal quale prende forma il suo nuovo progetto: un’opera di finzione – in aggraziato bilico tra Sarabanda (Bergman, 2003) e Un amore di gioventù (Hansen-Løve, 2011) – incentrata su due ex fidanzati, Amy (Mia Wasikowska) e Joseph (Anders Danielsen Lie), che si ritrovano dopo anni, in occasione del matrimonio di un’amica in comune. “L’isola sarebbe un set perfetto”, commenta Chris in risposta al marito quando le chiede dettagli sull’ambientazione della sceneggiatura che va illustrandogli; e la storia che inizia a dipanarsi, prendendo il sopravvento audiovisivo della messinscena, si svolge in effetti a Gotland (al cui arcipelago afferisce anche l’isola di Fårö). Da questo momento lo spettatore seguirà due film distinti che si mescoleranno, fino a giustapporsi nell’epilogo, quando i due filoni narrativi orbiteranno attorno all’abitazione-museo di Bergman.

L’isola si configura dunque come un ecosistema variegato, un territorio punteggiato da ispidi rauk e da soffici dune di sabbia, illuminato da una luce estiva, il cui bagliore potrebbe quasi ricordare dei paesaggi mediterranei, e sferzato da piogge torrenziali. Un’isola leggendaria, dalla quale in tempi remoti si riteneva che avrebbe preso avvio il Giudizio universale, scoperta grazie a una preziosa guida locale, ma che, al contempo, può essere piegata a una fruizione strumentale, come accade in occasione del “Bergman Safari”, in cui gli estimatori del cineasta hanno modo di osservare i luoghi più iconici e persino quelli che il suo cinema ha inventato, come la casa di Come in uno specchio (Bergman, 1961) di cui fu costruita unicamente la facciata, smantellata al termine della lavorazione del primo capolavoro girato a Fårö.

L’incontro con Hampus, lo studente di cinema che le fa da cicerone, segnala il momento in cui Chris diviene a tutti gli effetti una figura traghettatrice – collante riflessivo della narrazione – che collega due sponde all’apparenza non comunicanti (femminile e maschile; uomo e artista; ammirazione e distacco critico; immagine e parola; documento e sogno; realtà e finzione), sperimentando la giusta distanza tra sé e il mondo, finanche facendo capolino nella storia che sta scrivendo, quasi a indossare il vestito bianco che Amy ha dismesso. Come Chris, Hansen-Løve cerca così di forgiare uno sguardo capace di districarsi tra la tendenza al culto auratico che fa dell’isola un memoriale a cui volgersi con devozione – senza tralasciare la sua possibile deriva fanatico-consumistica, tra un’occhiale “modello Bibi” e tour agiografici in pullmino – e la predisposizione alla rilettura critica e al reenactement più frivolo dei topoi bergmaniani.

Da qui la possibilità di tracciare un funambolico fil rouge tra il cinema intransigente del sommo maestro e l’epos sentimentale degli Abba, sulle cui note si abbandona Amy: un inatteso allineamento d’intenti che si realizza attraverso una vocazione artigianale, tanto sapiente quanto romantica e fieramente anacronistica, come il mosso e le morbide sfocature della pellicola, cordone ombelicale di celluloide dalla cui densa grana sembrano riaffiorare i fantasmi del cinema che fu.

Riferimenti bibliografici
I. Bergman, Lanterna magica, Garzanti, Milano 2008.

Sull’isola di Bergman. Regia: Mia Hansen-Løve; sceneggiatura: Mia Hansen-Løve; fotografia: Denis Lenoir; montaggio: Marion Monnier; musiche; interpreti: Vicky Krieps, Tim Roth, Mia Wasikowska, Anders Danielsen Lie, Grace Delrue, Hampus Norderson, Clara Stracuh, Joel Spira, Anki Larsson, Siri Hjorton Wagner; produzione: CG Cinéma, Neue Bioskop Film, Scope Pictures, Plattform Produktion, Piano, Arte France Cinéma; distribuzione: Teodora Film; origine: Francia, Germania, Belgio, Svezia, Messico; durata: 105’; anno: 2021.

Share