Da qualche mese è in libreria una terza edizione del saggio di Bruno Moroncini dedicato alla lettura lacaniana del Simposio. Il volume è accompagnato da una nuova, densissima prefazione, titolata Il puro (a)mur, su cui mi soffermerò principalmente nella mia disamina, proprio per la ricchezza e la chiarezza della prospettiva teorica di Moroncini nel solco dell’eredità lacaniana.
La premessa della prefazione è estremamente netta. Se è vero che l’intento di Lacan è quello di sganciare la psicoanalisi dallo psicologismo e di declinarla “corsaramente” attraverso categorie filosofiche, allo stesso tempo questo obiettivo è perseguito, segnatamente nel seminario VIII sul transfert in cui la posta in gioco è nientemeno che il Simposio di Platone, provando a scardinare il “discorso dell’Università”, o, più precisamente, la lettura accademica del testo filosofico. Ciò avviene in Lacan con una messa in valore della «prospettiva dell’uomo del desiderio» (Moroncini 2022, p. 9), l’homme du désir, Alcibiade, nella cui attitudine «c’è qualche cosa […] di sublime, in ogni caso di assoluto e appassionato» (Lacan 2008, p. 173). L’uomo del desiderio sovverte la visione di Socrate, il soggetto della scienza. Attraverso questa valorizzazione dell’irruzione di Alcibiade al convito, Lacan opera una decostruzione del discorso filosofico attraverso una messa in discussione del «rapporto gerarchico tra sapere e desiderio» (Moroncini 2022, p. 10). È a partire da questo discrimine decisivo tra due attitudini “esistenziali” che Moroncini può ritagliare, dal mare magnum dell’insegnamento lacaniano, due declinazioni dell’amore, che, molto coerentemente, si affacciano sul versante etico e su quello analitico, a partire dal “dittico” dei seminari VII e VIII, rispettivamente sull’etica della psicoanalisi e, come detto, sul transfert.
Nel seminario VII, seguendo una precipua tradizione spirituale, soprattutto di area francese, come è noto, Lacan riprende il topos del “puro amore” ed il tema della sublimazione, quest’ultimo già centrale nella produzione freudiana. Non è un caso che, nello stesso seminario, si affacci il concetto di Chose, la faccia crudele dell’Altro, quella che fa intravedere, spietatamente, un godimento al di là del principio di piacere, il piacere-dolore del godimento in eccesso. Parlando della Cosa, ci troviamo, ci ricorda Moroncini, in un territorio di confine tra concetti incandescenti: il frui agostiniano, la jouissance di Dio – nel senso soggettivo e oggettivo del genitivo –, la notte del nulla da cui vengono, secondo un’eco taoista più che nichilista, tutte le cose. Questa inaudita trinità, Dio-Cosa-crudeltà, capace di fondare una “mistica della malvagità”, è il percorso che da Angelus Silesius conduce al seminario VIII di Lacan e a una nuova concezione dell’amore-Eros: «Sappiamo che il dominio di Eros si estende infinitamente più lontano di qualsiasi campo il Bene possa coprire» (Lacan 2008, p. 12).
Questa versione inquietante del campo di dominio dell’Eros dà la misura della radicalità cui può spingersi l’etica del desiderio, incarnata da Alcibiade nel seminario VII. Alcibiade è disposto a tutto per assicurarsi il godimento, persino a seguire le vie del male. E non ci si inganni pensando che una risposta “moralizzatrice” possa risolvere il problema. Di cattive intenzioni sono lastricate le vie dell’inferno, ragion per cui Creonte, nel tentativo di salvare Tebe, la conduce a ulteriore distruzione, per seguire Lacan nella sua incursione nel tragico. Quale antidoto, dunque, a questa presenza inemendabile, e forse soverchiante, come Lacan si fa suggerire da Lutero, del male in Dio? La risposta lacaniana, non sorprendentemente, va ricercata nella risoluzione dell’impasse desiderio-godimento o, per dirla in altri termini, pulsione-desiderio. Come è possibile immaginare un desiderio che non sia spogliato del carattere infinito della jouissance e, allo stesso tempo, non sconfini nel godimento mortifero? Come rispondere alla «rovina fatale di una volontà di godimento che vuole imporsi come assoluta» (Recalcati 2021, p. 58), come ci ricorda Recalcati a proposito della posizione perversa, incarnata dalla figura di Don Giovanni più che dal riferimento a Sade?
Quale possibilità di scioglimento per questo nodo, insieme etico e clinico? E «se fosse l’amore, inteso in modo radicale, l’unico affetto in grado di affrontare a testa alta questo odio dell’Altro, questa malvagità di un Dio-Chose, e in qualche caso di riuscire addirittura a sormontarli o perlomeno disattivarli?» (Moroncini 2022, p. 19). È chiaro che bisogna intendersi: quale amore? Come detto, Moroncini propone due delle declinazioni lacaniane dell’amore, al crinale tra desiderio e godimento, parole e cose, simbolico e reale, metafore e corpi. Anticipiamo come, nella prefazione e nel testo, pur affrontando di petto la “mozione” di Alcibiade e dunque problematizzando il rapporto tra sapere e desiderio, Moroncini tenga salda la nozione lacaniana di impossibilità del rapporto sessuale, e di conseguenza ponga l’amante, l’erastés, Alcibiade, ma ancor più Achille, l’amato (eromenos) divenuto amante, nella posizione della morte. L’altro dell’eros (l’amato tramutatosi in amante a seguito della lotta a morte del desiderio) diviene per me “portatore di morte” (ivi, p. 74), come colui che mi cerca per divorarmi, per incorporarmi (quaerens quem devoret). A meno che non intervenga la metafora, che la morte stessa non si faccia segno, che il tratto debordante del desiderio amoroso non si “mortifichi” nella parola. In altri termini, l’amore può salvarci a tratto di neutralizzare la lotta a morte attraverso il sapere dell’impossibilità dell’amore, quel sapere che l’analista è supposto sapere (dall’analizzante) ma che può sorgere solo attraverso la dialettica hegeliana degli amanti. Socrate senza Alcibiade sarebbe vuoto, Alcibiade senza Socrate sarebbe cieco, rispetto alla verità sull’amore e sulla morte.
Ma è davvero così? O, meglio, la condizione di impossibilità dell’amore non è forse la condizione della sua possibilità? Sicuramente Moroncini è ben consapevole di ciò, e lo esprime chiaramente nella prefazione, su cui torneremo a breve per tirare le fila del discorso. Come Lacan formalizza chiaramente in Io parlo ai muri, l’amore non è ciò che si frappone tra uomo e donna, ma ciò che rende possibile il loro incontro. Questa trasmutazione è mirabilmente visibile nello slittamento lessicale che Lacan opera sui versi di Antoine Tudal, già citati in esergo nel suo scritto seminale Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi e ripresi appunto vent’anni dopo nella lezione tenuta all’Ospedale Sainte-Anne: Tra l’uomo e l’amore / C’è la donna muta in Tra l’uomo e la donna / C’è l’amore. È in questo cambio di posizione tra la donna e l’amore che quest’ultimo cessa di essere un “muro” e diviene un (a)muro, un (a)mur.
Se, nella versione dell’etica della psicoanalisi, l’amore-sublimazione metteva un limite alla malvagità della Cosa, elevando attraverso la poesia dell’amor cortese una Dama alla dignità della Chose solo per serrarla «nella gabbia del verso» (ivi, p. 24), alla fine dell’insegnamento lacaniano, l’(a)mur, il carattere di impedimento (dell’amore rispetto al rapporto sessuale), diventa la condizione paradossale dell’incontro tra gli amanti. Detto in altri termini, il muro diventa un nastro di Moebius che permette l’incontro tra l’uomo e la donna (naturalmente non da intendersi in senso biologico, ma con riferimento alla sessuazione maschile e femminile nonché al resto dei processi di soggettivazione dell’identità di genere).
Vi è tuttavia, a mio avviso, più di una differenza di nuance tra quella che è l’interpretazione dell’(a)mur di Moroncini e quella che è possibile rintracciare nella produzione di Massimo Recalcati, in particolare nella più recente. Intendiamoci: la centralità della parola nella dimensione amorosa, e di quella particolare parola che è il nome proprio, è un portato lacaniano indubitabile, messo in valore da entrambi gli studiosi. L’amore è sempre amore tra separati, tra esiliati – si veda il riferimento di Lacan agli amanti come “tracce dell’esilio” –, è tensione inesauribile del non potersi mai fare Uno, e questa impossibilità è volta a scongiurare la caduta nell’abisso letale della Cosa, oltreché a far segno della finitezza umana ossia della mortalità. E tuttavia, per ritagliare meglio la specificità della posizione di Moroncini, vi sono due cose da evidenziare rispetto agli esiti della tensione erotica e al significato dell’(im)possibilità del rapporto sessuale, per come mi sembra l’abbia declinata, appunto, Massimo Recalcati, dando conto del “traghettamento” dal simbolico al Reale dell’ultimo Lacan.
In primo luogo, la mancanza-a-essere degli amanti, non solo costituisce la condizione di possibilità del loro incontro, ma rende anche inesauribile la loro spinta desiderante. Questa considerazione ci permette però di spingerci ancora oltre. È ben noto come alla dialettica del desiderio e del riconoscimento, alla domanda del segno d’amore, Lacan abbia fatto seguire la nozione di oggetto piccolo (a) come oggetto perduto causa del desiderio. È qui che si gioca il destino di Alcibiade: non è solo il passaggio da eromenos ad erastés, il desiderio come desiderio dell’Altro, il passaggio dal genitivo oggettivo al genitivo soggettivo; v’è di più, l’oggetto si separa-aliena passando nel campo dell’Altro, diviene perduto, e, in quanto perduto, è ricercato attraverso le scorribande del desiderio. Anche questo slittamento, puntualmente segnalato da Moroncini, non può non suggerirci una lettura ulteriore. Il moto perpetuo dell’oggetto piccolo (a) è il passaggio dal desiderio dell’Altro al desiderio d’altro, il tratto “metonimico” che caratterizza il tempo ipermoderno.
In questo senso, Alcibiade approda all’insoddisfazione costante del desiderio, che lo fa naufragare. Di fronte a ciò, Moroncini oppone l’argine della parola, del simbolico. Per Recalcati, il contravveleno lacaniano a una tale deriva – rimedio non semplicemente metaforico, non confinato all’ordine del discorso – è piuttosto nella versione femminile, non-tutta, del desiderio. È dunque possibile conciliare amore e desiderio, desiderio e pulsione? Non solo fare parola dei corpi, ma anche incarnare la parola? Sì, ammettendo un Altro godimento. Il godimento femminile non è infatti limitato dalla legge di castrazione, e ciò non in virtù di un eccesso, ma di un’eccedenza: un godimento non-fallico, non parziale, ma diffuso su tutto il corpo, capace di amare l’altro nel suo essere un Tutto, la singolarità irripetibile di un nome incarnato.
Riferimenti bibliografici
J. Lacan, Il Seminario. Libro VIII. Il transfert (1960-1961), Einaudi, Torino 2008.
M. Recalcati, Esiste il rapporto sessuale? Desiderio, amore e godimento, Raffaello Cortina, Milano 2021.
Bruno Moroncini, Sull’amore. Jaques Lacan e il Simposio di Platone, Cronopio, Napoli 2022.