L’ultimo saggio di Peppino Ortoleva – Sulla viltà. Anatomia e storia di un male comune, pubblicato da Einaudi – è un testo che vuole ripercorrere la storia dei cedimenti dell’animo umano vista da una prospettiva occidentale. Diversamente dai precedenti studi sui media dello scorso secolo, l’autore cambia rotta per cimentarsi nella ricostruzione storica di quello che definisce un «male comune» nel panorama della filosofia morale dall’antichità fino ai giorni nostri: l’essere vili. Nonostante il problema affondi le sue radici nell’etica e venga presentato come una questione orbitante intorno ai concetti di virtù e di vizio, l’impostazione metodologica abbandona presto l’alveo delle scienze umane per affidarsi ad un’indagine che serpeggia fra le pagine della narrativa. Lo scopo è quello di collezionare tutti i possibili modi mediante i quali la viltà si è manifestata nel corso delle tradizioni e all’interno degli immaginari della cultura europea e americana, con la convinzione che essa non sia univocamente definibile ma soltanto arginabile attraverso “concetti-esperienza”.

Ortoleva si rifà esplicitamente alla teoria degli atti linguistici per accostarsi ad una pragmatica del linguaggio e sostenere l’impossibilità di considerare il termine “viltà” riferendosi ad una teoria universale, quando invece «è possibile usare quegli stessi termini per riconoscere aspetti correnti e ricorrenti del vivere radicati nella realtà concreta delle persone, riconoscerne la forza nel fatto che si radicano nel vissuto di tutti» (Ortoleva 2021, p. 56). Pertanto, l’essere vili della storia morale dell’Occidente non trova nel saggio una vera e propria definizione, al contrario a risaltare è il suo uso in relazione alle intenzioni dei parlanti calati nelle rispettive epoche. E proprio da questa convinzione nasce l’idea di affidarsi alle storie dei grandi classici della letteratura, invece che a saggi o trattati, di presentare varie “scene della viltà” piuttosto che soluzioni teoriche.

Ciò che emerge dalla disamina del libro è una conseguenza del pragmatismo linguistico adottato. Dal momento che la viltà non può essere identificata da un concetto univoco, ma viene presentata come una azione, come un atto illocutorio per dirla con John Austin e John Searle, l’ambiente sociale e culturale in cui essa agisce assume un significato particolare. Essere vili viene a rappresentare così un “venire meno” rispetto ad uno standard precedentemente costituito da una collettività. Ortoleva si discosta dall’etica della virtù greco-romana e dalla morale cristiana, per le quali il vizio nasce e si radica dentro la personalità dell’individuo in modo innato o, come ha detto Philippa Foot, secondo una disposizione dell’animo diretta verso un fine correttivo, e approda ad una concezione performativa: se si scorrono le “scene della viltà” nella cultura letteraria, questo “male” appare sempre come una perdita di rispetto verso sé stessi a causa di una riprovazione da parte della società in cui si è immersi in un dato momento.

È qui che personalità come Platone, Aristotele, Spinoza e Kierkegaard vengono messe da parte per lasciare spazio agli anti-eroi dell’immaginazione letteraria o a personaggi realmente esistiti le cui vicende sono passate alla leggenda: la battitura del codardo Tersite da parte di Ulisse nell’Iliade, il tradimento di Pietro, la buffoneria di Falstaff, la fucilazione del soldato Slovik, per citare alcune delle scene di viltà più celebri. L’evoluzione della codardia rispetto agli impegni presi scorre le diverse “forze illocutorie” che spingono i gruppi sociali – specialmente quelli militari – ad ostracizzare i componenti non allineati ai valori vigenti. Se nella cultura classica la stirpe ha giocato un ruolo chiave nel dividere i coraggiosi, cioè l’aristocrazia guerriera dai vili, l’era contemporanea delle democrazie e dei totalitarismi ha insegnato, invece, che il senso d’appartenenza nazionale e la partecipazione politica svolgono la funzione principale nell’attribuire dignità sociale ai singoli individui.

Il rischio naturale di una operazione di questo tipo, che sembra non considerare il coraggio come prassi deontologica ma solo come habitus conseguente ad una pressione del gruppo, cioè come un comportamento appreso volontariamente secondo le esigenze morali del tempo, è di vanificare gli sforzi della ricerca fino ad impantanarsi in un relativismo dei valori. Il saggio di Ortoleva ha il merito di accorgersi di questo pericolo: «L’esistenza di discorsi arbitrari e comunque strumentali sul tema, e più in generale studiare il variare storico delle rappresentazioni della viltà, non significa ridurre tutto a discorsi» (ivi, p. 277). Tuttavia, la rassegna delle scene della viltà, allo scopo di fornire le coordinate orientative per l’acquisizione di un’idea del fenomeno, sembra ridursi ad un tentativo di descrizione dei meccanismi sociali mediante i quali alcuni vengono esclusi poiché incapaci di rispettare i valori di un gruppo. Se la viltà è un male comune che rappresenta la degradazione morale rispetto ad un sistema condiviso di norme, lo stesso discorso può essere esteso ad altri importanti concetti della tradizione filosofica: giustizia, generosità, sapienza, ecc.

Sicuramente il punto di maggior rilievo intorno al quale si sedimenta lo studio di Ortoleva è la ricostruzione, a ritroso, di una drammaturgia della viltà. Il saggio lascia spazio al lettore per poter distillare autonomamente il significato del termine mediante una sorta di invito alla lettura dei classici: luogo privilegiato della sua manifestazione concreta (nonostante l’intrinseca natura immaginaria), dove è possibile ripercorrere – usando una celebre espressione coniata da Wittgenstein –  le varie «somiglianze di famiglia» ricorrenti nella nostra cultura, spesso e volentieri segnata da un universo mitologico legato alla guerra, alla paura e al controllo.

Una mancanza che si potrebbe imputare ad un lavoro di questo tipo è la sottovalutazione delle cause biologiche che inducono un individuo a manifestare atteggiamenti moralmente riprovevoli, rischiando così di cadere nel relativismo sopra descritto. In diverse parti del saggio, l’autore ribadisce che la viltà è un comportamento volontariamente ripetuto, il quale può divenire un’acquisizione caratteriale. Ma gli sviluppi della sociobiologia hanno dimostrato, o almeno suggerito, che non tutte le nostre azioni sono sottoposte ad un controllo cosciente. L’ultimo capitolo del libro è una critica a quelle concezioni deterministiche che ritengono la viltà una caratteristica innata dell’indole di una certa persona: Ortoleva riconosce il problema e ciononostante non fa alcun riferimento alle teorie dell’evoluzione, chiudendo il libro con una parte ancora da trattare. Difficile immaginare che un soldato di fanteria, durante un conflitto armato, scelga volontariamente di essere coraggioso o vile a seconda delle forze illocutorie generatesi nella compagnia dei suoi pari. Più facile pensare che le azioni da egli intraprese siano frutto di un qualche calcolo fra costi e benefici. Henri Laborit, biologo e filosofo francese, nel suo tanto discusso Elogio della fuga, introduce una spiegazione di questi automatismi psicologici fornendo una interpretazione in linea con i successi della biologia post-darwiniana.

A differenza delle ideologie del darwinismo sociale, che fanno leva sulla forza e sull’aggressione, qui vengono scientificamente legittimate le condotte della “non-belligeranza”, le quali si dimostrano maggiormente efficaci in vista di un aumento della fitness biologica. Fuggire di fronte ad un pericolo è una azione evolutivamente economica per l’individuo, la quale si presenta come moralmente neutra: essere vili, nella maggior parte dei casi, significa essere più adatti. Il libro di Ortoleva, dopo l’articolata rassegna letteraria delle scene della viltà, si conclude con un esame forse sommario della questione inquadrata nei contesti adattativi delle specie. Negli ultimi anni, numerose scienze sociali hanno trovato fruttuoso questo approccio e anche Sulla viltà potrebbe giovare di una simile aggiunta; a maggior ragione dal momento che si colloca all’incrocio fra i saperi della filosofia, della sociologia e della psicologia.

Riferimenti bibliografici
J. L. Austin, Come fare cose con le parole, Marietti, Genova 1987.
P. Foot, Virtù e vizi, Il Mulino, Bologna 2008.
H. Laborit, Elogio della fuga, Mondadori, Milano 2017.

Peppino Ortoleva, Sulla viltà. Anatomia e storia di un male comune, Einaudi, Torino 2021.

Share