Da sempre, la filosofia ha trovato un punto di riferimento privilegiato nei discorsi sul mare, in maniera metaforica come nella “seconda navigazione” di cui parla Platone, o in maniera effettiva come nel mesmerico volume di Carl Schmitt Terra e mare. Forzando i termini potremmo dire che, oltre a essere, come insegnano Deleuze e Cacciari, sempre geofilosofia, il pensiero occidentale è al contempo, e in maniera altrettanto originaria, una talassofilosofia. Il saggio di Sloterdijk, fin dall’accattivante titolo Sulla stessa barca, rientra pienamente in un discorso del genere. Pubblicato in Germania nel 1993 – prima della trilogia di Sfere di cui anticipa in maniera aurorale e apodittica alcune tematiche – questo intenso volumetto, che, in poco più di ottanta pagine, ci consegna un suggestivo e avvincente «affresco di storia universale» (Sloterdijk 2020, p. 14), appare per la prima volta in Italia per le Edizioni ETS nella traduzione di Alessandro De Cesaris.

Se ne La condizione postmoderna Lyotard faceva suonare a morto le campane per le grandi narrazioni, Sloterdijk, in consonanza con i dettami della filosofia della storia di Hegel, ma anche in ossequio alla logica triadica del suo sistema, ripercorre l’intera storia dell’umanità, analizzata sotto la lente ermeneutica della politica, proponendo tre tappe (a cui corrispondono altrettanti capitoli) attraverso cui in maniera dialettica si giunge alla condizione del nostro oggi, ovvero all’iperpolitica che costituisce l’oggetto stesso del saggio di Sloterdijk.

La prima tappa, quella definita della paleopolitica, parte dalla constatazione di un’assenza; mancanza che più o meno negli stessi anni, nel saggio La domesticazione dell’essere, Sloterdijk rilevava anche nell’ontologia heideggeriana del Dasein. Tutti i discorsi sull’uomo e sul suo essere nel mondo, secondo Sloterdijk, ignorano totalmente il processo antropogenetico che rende l’uomo tale. Facendo iniziare la storia dalla nascita e dall’affermazione delle grandi civiltà avanzate (civiltà mesopotamica, egizi, assiri ecc.) viene messo a tacere un buon 95% della storia dell’uomo. Se, invece, si presta attenzione al periodo pre-storico, afferma il filosofo di Karlsruhe, ci si rende subito conto come in esso prenda forma una paleopolitica – originaria sia a livello cronologico sia a livello ontologico – che non presuppone l’uomo, nell’astrazione umanistica che questo concetto porta con sé, bensì produce uomini. In questo contesto si legge già in filigrana il discorso che Sloterdijk condurrà in numerosi testi successivi sulle antropotecniche, ossia tutte quelle tecniche che tracciano nell’uomo «una storia naturale dell’innaturale» (ivi, p. 22).

La politica dell’origine, la paleopolitica, è una politica della sopravvivenza e al contempo una «grammatica della convivenza» (ivi, p. 26). Scardinato il legame totalizzante con l’ambiente che lo circonda, l’uomo sperimenta la prima forma di associazione nella modalità dell’orda. Paragonabili a isole o zattere galleggianti le orde, gruppi ristretti di mutua assistenza e difesa, sono i primi luoghi di socialità. Esse riproducono all’esterno le condizioni che caratterizzano la vita intrauterina – da cui il titolo del capitolo Grembi e zattere. Così come il rapporto madre-figlio si dà sempre nella forma del suono – il bambino si riconosce e trova consolazione nella ritmicità del battito cardiaco e nella voce della madre nel cui grembo ha galleggiato per nove mesi –, allo stesso modo la vita dell’orda è caratterizzata da un sentirsi insieme [sich zusammen hören], da una consonanza. Nella sfera sonora (sonosfera) dell’orda si delinea, allora, una forma di convivenza e di volontà di riproduzione in generazioni successive – il farsi uomo dell’uomo – che rivela in maniera autentica, sebbene aurorale, «un’intenzione essenzialmente politica» (ivi, p. 29).

La seconda tappa di questo viaggio dell’umanità è rappresentata dalla politica classica. Dal navigare in balia delle onde su zattere incerte si passa alla navigazione di cabotaggio; un avvicinarsi alla costa che, sebbene foriero di pericoli e imprevisti, propone un passo in avanti nell’evoluzione sociale e politica dell’umanità. Se Hegel è il riferimento costante del saggio di Sloterdijk, la politica classica rappresenta allora il momento oppositivo-dialettico rispetto all’orda primordiale della paleopolitica. Uscito dall’orda primigenia, dal calore amniotico che lo proteggeva avvolgendolo, l’uomo si trasferisce ora in dimore astratte; diviene homo politicus e, al contempo, homo metaphysicus; in altre parole, si pone alla ricerca di tutto ciò che, al di là delle membrane gestazionali, è grande (ta megala).

Questo abbandono e questa ricerca, che nel lessico di Sloterdijk prendono la forma appunto di una megalopatia, non sono però pacifiche e indolore; se, come afferma Platone, «tutte le cose grandi sono pericolose» (Rep., 497d), l’ingresso dell’uomo nella città e il “commercio” negli affari di Stato presuppone «una forma di esistenza ascetica e atletica che plasmi gli individui come gladiatori politici» (ivi, p. 37). La politica si dà, allora, sotto la forma di un’atletica statale: l’homo politicus, una sorta di decatleta dello Stato, deve cambiare la propria vita. E ciò può avvenire solo attraverso un continuo esercizio educativo. In fondo il carattere paideico del mito della caverna non è nient’altro che questo: un continuo esercizio per abituare lo sguardo a tutto ciò che è grande.

Eppure nella Politeia platonica il percorso del filosofo, o dell’uomo di Stato, che al primo corrisponde, è un cammino solitario. La politica classica, dunque, presenta un doppio movimento coessenziale: da un lato, con l’uscita dell’uomo dal grembo dell’orda, essa prospetta la nascita dei grandi imperi, delle grandi realtà statuali, dall’altro, in maniera dialettica, abbozza le coordinate concettuali per cominciare a comprendere uno dei modi attraverso cui la tarda modernità, soprattutto nella sua forma industriale, prende forma: «l’individualismo post-politico europeo» (ivi, p. 55). In altri termini, la politica classica contiene in sé i tratti seminali del proprio compimento e del proprio superamento nell’iperpolitica.

L’iperpolitica rappresenta, quindi, la tappa finale dello sviluppo politico dell’umanità; un superamento che, nell’andare oltre, conserva e riconfigura a un livello più elevato le peculiarità proprie della paleopolitica e della politica classica. Dando per acquisita la morte di Dio e per definitivamente chiuso lo spazio della trascendenza, «ciò che riamane da fare “in teoria e in pratica” è l’impiantamento di una politica per l’epoca in cui manca un potere unitario» (ivi, p. 80).

La terza epoca dell’umanità, la nostra epoca, che trova nell’iperpolitica la propria forma di dispiegamento, oscilla, nell’affresco di filosofia della storia sloterdijkiano, tra due polarità. A un estremo si colloca la constatazione della morte di Dio, interpretabile in questo contesto come il definitivo declino dello spirito dell’epoca agraria. L’uomo della modernità dispiegata è l’ultimo uomo nietzschiano, l’uomo «sovraffaticato della civiltà avanzata» (ivi, p. 68). Egli, persa la rotta e la direzione del proprio viaggio, trova nell’ipertrofia dell’esperienza vissuta una paradossale, eppure per alcuni versi coerente con lo spirito del tempo, forma di asociale socialità. L’aspirazione alle cose grandi (megalopatia) dell’epoca classica si trasforma ora in olomania, mentre l’antico cosmopolitismo cede il passo al nomadismo cosmopatico, in cui vi sono «supernavi, quasi incontrollabili per la loro stazza gigantesca, che solcano un mare di naufraghi, con tragiche turbolenze ai lati della nave e, a bordo, opprimenti conferenze sull’arte del possibile» (ivi, p. 14).

Dall’altro lato dell’oscillazione caratterizzante l’epoca dell’iperpolitica si pone, invece, la necessità di ripensare l’essere nel mondo dell’uomo e la politica stessa affinché «la vita e la civiltà continuino e si accrescano in nuove dimensioni mai concepite» (ivi, p. 59). In fondo, coerentemente con lo spirito hegeliano del testo e in maniera circolare, si pongono qui, sebbene a un livello più elevato, le stesse questioni che avevano determinato la nascita della (paleo)politica: come pensare la sopravvivenza nell’epoca del nichilismo? Com’è possibile nella società iperpolitica vincere «in modo che anche dopo di lei ci possano essere ancora vincitori»? (ivi, p. 90).

Sloterdijk non fornisce risposte a tali quesiti, piuttosto traccia alcune linee interpretative attraverso cui proporre fecondi spazi di discussione intorno a queste tematiche. Innanzitutto mostra come, lungi dal rappresentare l’antidoto al nichilismo dilagante proprio dell’epoca iperpolitica, la democrazia ne rappresenti una forma precipua: essa, almeno nella fatticità storica dell’Occidente, è quella forma politica in cui al cittadino è permesso paradossalmente di «non pensare allo Stato e all’arte della convivenza» (ivi, p. 83). In secondo luogo, contrapponendo la costruzione teologico-politica del De Monarchia di Dante al Decamerone, e in particolare al contesto comunitario attraverso cui prende forma la cornice nell’opera di Boccaccio, Sloterdijk accenna al fatto che nell’epoca del tramonto del “temibile Dio mortale” una delle sfide che la politica ci pone è quella di ripensare, anche in virtù dell’esperienza delle prime orde della paleopolitica, una nuova forma di opus commune. In fondo, riadattando il motto di Karl von Clausewitz alle proprie esigenze, ci dice Sloterdijk che compito per una politica a venire sarà di fare in modo che «l’iperpolitica diventi la continuazione della paleopolitica con altri mezzi» (ivi, p. 90).

Riferimenti bibliografici
Platone, Repubblica, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2009.
P. Sloterdijk, Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger, Bompiani, Milano 2004.
Id., Sulla stessa barca. Saggio sull’iperpolitica, ETS, Pisa 2020.

Peter Sloterdijk, Sulla stessa barca. Saggio sull’iperpolitica, ETS, Pisa 2020.

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