Scandaloso, Kant? Non è forse intronizzato nel pantheon dei filosofi come un grande maestro, intoccabile per il rispetto che suscita? Lui, così rigoroso, così onesto, così attento alla più rigida legalità, perfino puritano? Come potrebbe dare scandalo? Eppure… Pensate alle tre Critiche. La prima (la Critica della ragione pura), apogeo dell’Illuminismo, si suppone abbia spalancato le porte a progressi irreversibili della scienza, stabilendo una volta per tutte le condizioni del pensiero razionale. Sì, certo, ma questa porta spalancata fu subito chiusa in faccia ai positivisti, i quali immaginavano che un giorno la scienza sarebbe stata in grado di spiegare tutto. Lo scandalo della prima Critica è che con essa Kant ha tarpato le ali alle pretese del nostro intelletto e ci ha costretto ad ammettere che la scienza ha limiti insormontabili. Passiamo ora alla seconda Critica (la Critica della ragione pratica). Qui avviene il contrario. Ci aspettiamo che un terribile super-io fissi severamente i limiti della nostra condotta morale: caspita, più intrattabile dei dieci comandamenti, un unico imperativo, ma categorico! Sì, certo, ma l’imperativo categorico non prescrive altro che la massima della nostra azione sia universalizzabile. È come dire: fai quello che vuoi, ma fallo solo se pensi che tutti gli altri possano farlo. Lo scandalo della seconda Critica è che con essa Kant ci ha abbandonati alla nostra libertà, senza poter trovare il minimo sostegno di un’autorità superiore, sia essa morale, religiosa o politica.
Ma è sullo scandalo della terza Critica (la Critica della facoltà di giudizio) che vorrei soffermarmi, perché è più nascosto, più discreto, e così sconvolgente che un’intera generazione di poeti e filosofi venuti subito dopo Kant – la generazione romantica – fece di tutto per eliminarlo. Nella terza Critica, la cui prima metà è dedicata al giudizio di gusto, Kant si è accorto di qualcosa di essenziale per la dimensione estetica dell’esistenza, che nessuno, prima o dopo di lui, aveva visto così chiaramente: cioè che quando esprimiamo giudizi estetici, postuliamo in tutti gli esseri umani la presenza di una facoltà di accordarsi, non sulla base di una verità matematica, che nessuno potrebbe contestare, né sulla base della legge morale, che è la stessa per tutti, ma sulla base di un sentimento condiviso. Kant chiama in latino questa facoltà di intendersi sensus communis, distinguendola chiaramente dal senso comune nel senso comune del termine, cioè dall’intelletto comune. Ecco come ho parafrasato questa facoltà in Aesthetics at Large:
Il sensus communis di Kant non è il senso comune ordinario. È il comune sentire: un sentimento condiviso o condivisibile, e la facoltà di provarlo; una capacità comune di avere sentimenti in comune; una comunanza o una comunicabilità degli affetti, che implica una definizione trascendentale dell’umanità come comunità unita da una capacità universalmente condivisa di condividere universalmente i sentimenti (De Duve 2018).
Spero che questa parafrasi, volutamente ampollosa ma del tutto priva di ironia, evidenzi a sufficienza il carattere scandaloso del sensus communis. Come? Saremmo dotati di una «capacità universalmente condivisa di condividere universalmente i sentimenti»? Una sorta di cristianesimo all’acqua di rose, di cui Kant sarebbe il sommo sacerdote? Fermiamoci qui, perché Kant, che era cristiano, non poteva non essere sensibile al comandamento “Ama il prossimo tuo come te stesso”. E poiché era convinto che ciò che dobbiamo, lo possiamo, può darsi che, nel porre il sensus communis, stesse semplicemente seguendo l’esempio, scandaloso, di Cristo che fonda la prima religione universale nell’amore. Ma la filosofia non è la religione, non è materia di fede. Come filosofo, Kant deve essere agnostico. Il vero scandalo della terza Critica è che, mentre Kant può credervi come buon cristiano, come filosofo è più che scettico sul sensus communis. E non ci chiede di essere meno scettici di lui. Ciò che ha scoperto, ripeto, è che quando esprimiamo giudizi estetici, postuliamo in tutti gli esseri umani la presenza di quella simpatia universale che ha chiamato sensus communis. Questo non significa che dobbiamo crederci.
Un postulato è una necessità del pensiero che, a differenza di un’ipotesi, non richiede di essere verificata empiricamente. (Anche se, secondo Kant, deve essere dedotta in modo trascendentale; ma non entriamo in una discussione tecnica.) Non c’è nulla di religioso, nulla di ingenuamente idealistico e nulla di utopico nel postulato secondo cui l’umanità è dotata di un sensus communis, perché questa dotazione non è né una realtà né un ideale da realizzare in un futuro più o meno lontano. Non è nemmeno il paradiso perduto. È un’idea, una semplice idea, ma è un’idea necessaria e imprescindibile (questa è la definizione stessa di idea trascendentale): un presupposto che dobbiamo porre a proposito dell’umanità e che poniamo nei fatti quando esprimiamo dei giudizi estetici autentici (la parola di Kant è “puri”), giudizi che pretendono un assenso universale, pur essendo fondati sul sentimento personale. Non c’è alcuna prova che la specie umana sia dotata di una tale facoltà di accordo sui sentimenti, tanto meno che questa facoltà possa essere portatrice di sentimenti unanimemente condivisi. Tutto prova piuttosto il contrario: i sentimenti che suggellano l’accordo sono raramente condivisi al di là della ristretta cerchia di amici intimi, forse della famiglia, e solo in maniera intermittente, con alti e bassi e talvolta con inconfessate riserve. Al di là di questa ristretta cerchia, regna l’indifferenza, con l’eccezione di occasionali lampi di empatia verso dei perfetti sconosciuti, se sono stati colpiti da qualche catastrofe. Questi lampi non durano e, il più delle volte, dobbiamo rassegnarci al fatto che la guerra è la regola, peace and love l’eccezione.
Tuttavia, senza l’idea – ancora una volta, la semplice, ma necessaria e imprescindibile idea – del sensus communis, tanto varrebbe accettare che homo homini lupus sia l’ultima parola di tutte le interazioni umane. Ora, ed è un altro scandalo, Kant non è lontano dal pensare, come Hobbes, che le cose stiano proprio così, che l’uomo sia un lupo per l’uomo, come dimostrano le sue osservazioni sul male radicale – radicale perché non può essere sradicato dal cuore dell’uomo (Kant 1985) – e le sue riflessioni quasi ciniche sulla necessità delle guerre come via per la pace: «L’uomo vuole la concordia, ma la natura conosce meglio ciò che è buono per il suo genere: essa vuole discordia» (Kant 1995). Negli scritti religiosi e politici di Kant troviamo la più grande sfiducia nella capacità degli uomini a unirsi in un sentimento comune. Solo nella Critica della facoltà estetica di giudizio, e anche qui solo in relazione al bello e non al sublime, viene posta l’idea del sensus communis.
Kant, in effetti, identifica il sensus communis con il gusto, la facoltà estetica di giudicare sul bello. Egli ha scoperto come nessun altro che l’idea, per cui siamo tutti dotati della facoltà di intenderci all’unisono sui nostri sentimenti, definisce la giurisdizione dell’estetica, in opposizione, tra le altre, a quella della politica. Immaginiamo un mondo in cui l’umanità fosse effettivamente riunita da sentimenti comuni, invece di essere tenuta a considerarsi tale. Immaginiamo che, invece di una definizione trascendentale di «umanità come comunità unita da una capacità universalmente condivisa di condividere universalmente i sentimenti», avessimo una definizione normativa, empirico-ideale, dell’umanità in questi termini. Ciò alimenterebbe forse il sogno di un paradiso cristiano. Di certo sarebbe un inferno politico. Ogni volta che si è tentato di organizzare la società attorno a sentimenti comuni, questi si sono rivelati non universalizzabili: quando la Gesellschaft pretende di essere integralmente Gemeinschaft, l’unità fusionale di tutti si ottiene solo al prezzo dell’esclusione violenta di almeno un gruppo particolare.
Lo scandalo della terza Critica è dunque duplice. Da un lato, l’idea della società come comunità di sentimento, pur essendo totalmente irrealistica e, per di più, dannosa, qualora dovesse essere messa in pratica politicamente, è tuttavia necessaria e imprescindibile nella sua giurisdizione, che è l’estetica. E viceversa: l’idea, necessaria e imprescindibile per l’estetica, dell’umanità come comunità di sentimento, sarebbe una mostruosità se dovesse essere messa in pratica politicamente. La facoltà estetica di giudizio legifera solo all’interno del proprio ambito: è per questo che Kant non le ha concesso l’autonomia, ma solo l’eautonomia. Nutrita dalla terza Critica, la prima generazione di filosofi e poeti tedeschi conosciuti come Frühromantiker trovò in questa limitazione un’enorme fonte di frustrazione, tanto più che erano anche la prima generazione a sperimentare la dolorosa perdita della natura causata da quello che Max Weber ha chiamato il disincanto del mondo. Per Kant, la sfera su cui legifera l’idea del sensus communis è la bella natura. L’apprezzamento del bello naturale era per lui l’unica esperienza che apre al postulato secondo cui noi tutti, in quanto esseri umani, siamo dotati della facoltà di intenderci a vicenda. La cultura, Kant non smette mai di dirlo, favorisce e promuove la civiltà ideale [civilité idéale], associata all’idea di una comunità di sentimenti, ma non ne costituisce il fondamento. La cultura presuppone il gusto per la bella natura, ma non può fare nulla per coloro che sono ciechi di fronte ad essa. E per Kant l’arte sarebbe solo una manifestazione raffinata, per non dire perversa, della cultura, se la teoria del genio – attraverso cui la natura dà la regola all’arte – non gli permettesse di ridurre il bello artistico al bello naturale.
Per mille ragioni storiche che non posso approfondire in questa sede, non è più la bellezza naturale ma l’arte (non il bello artistico, ma l’arte in quanto tale) che, nel secolo che separa il romanticismo dal trionfo del modernismo, ha iniziato a circoscrivere per noi la sfera estetica regolata dall’idea necessaria e imprescindibile del sensus communis (Cfr. De Duve 2023). E questo passaggio dalla natura all’arte ha per conseguenza un ultimo scandalo, a cui il nostro momento storico dà una risonanza inquietante: a seguire Kant nella consapevolezza di questo passaggio, dovremmo credere che la cultura presuppone il gusto per l’arte, ma non può fare nulla per chi è cieco alla qualità artistica. Non abbraccerei senza riserve questa linea di pensiero, ma ci vedo un fondo di verità. E una speranza. Lo scandalo che non potevano sopportare i romantici, Schiller in testa, era che l’educazione estetica dell’uomo attraverso la cultura non portasse a una società politicamente più giusta e più libera. Ciò sarebbe accaduto anche se la Bildung – quella concezione edificante e progressista della cultura radicata negli studi umanistici – avesse continuato a nutrire le nostre scuole, le nostre università, le nostre istituzioni culturali. Ma la Bildung è scomparsa e noi tutti, volenti o nolenti, pratichiamo ora i Cultural Studies: osserviamo la cultura, le culture, la nostra cultura, come etnologi relativisti e disincantati. Kant ci permette di escludere l’arte da questo triste destino della cultura, perché ci invita a comprendere che l’arte, pur facendo ovviamente parte della cultura, non può essere ridotta a essa. Le culture sono plurali e relative. Solo l’arte ha una legittima pretesa di universalità. Finché ci saranno artisti convinti di non essere semplici “produttori culturali”, l’idea del sensus communis, e con essa il riferimento a un’umanità unita trascendentalmente nel sentimento, rimarranno vivi.
Riferimenti bibliografici
T. De Duve, Art as Symbol of the Politically Good, in Revue internationale de philosophie, n. 1, 2023.
Id., Why Kant Got It Right, Introduzione di Aesthetics at Large, Vol. 1: Art, Ethics, Politics, University of Chicago Press, Chicago 2018.
I. Kant, La religione nei limiti della sola ragione, Laterza, Roma-Bari 1985.
Id., Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, in Scritti di storia, politica e diritto, Laterza, Roma-Bari 1995.
© Thierry de Duve, New York, aprile-maggio 2024.