Se Marshall McLuhan fosse ancora tra noi avrebbe giudicato la sinistra tutta competenze, procedure e specialismi “meccanica”. Dunque, incompatibile con il mondo “elettro-organico” inaugurato dall’invenzione del telegrafo. Questo è neo-tribale, magico e sinestetico, mentre le politiche Dem sono iper-razionali, civilizzanti ed esclusive, malgrado la loro professata inclusività. L’eccesso di legislatura e nomenclatura che le caratterizza cozza con l’anonima e averbale condizione “subacquea” dei nomadi digitali: “mittenti spediti” via dal corpo con la mente estesa e il sistema nervoso a fior di scroll. Perciò, così come non riescono, con le loro sigle ed etichette, a placare il bisogno di ricerca interiore di una società psichica più che politica, affamata di ruoli più che di lavori, di mito più che di storia – quest’ultima si è dissolta insieme alla materia decretando l’obsolescenza del materialismo dialettico –, non riescono ad arginare con i loro plurimi acts l’unica, tentacolare, azione delle oligarchie hi-tech e dei loro prodigi. Le loro soluzioni sono visive più che visual, predicative più che prensive, ma il villaggio globale è una camera d’echi in cui domina il sensorio tattile per cui ogni cosa è totale e improvvisa, grave e invadente. Gli obiettivi stentano a formularvisi perché tutto, in Ecolandia, è sull’obiettivo e non c’è tempo per il giudizio: la percezione, in sé, è informazione.
Se fosse ancora con noi, McLuhan avrebbe interpretato l’elitarismo che si rimprovera ai Dem come il marchio dell’“angelicato cognitivo” tipico della cultura occidentale forgiata dal medium alfabetico. Questo è rovente, come il culto del politically correct che ne deriva, non in quanto sistema di scrittura ma in quanto sistema di scrittura fonetica che predilige la vista agli altri sensi e, quindi, le figure chiare e distinte agli sfondi oscuri e confusi. L’arbitrarietà del segno rispetto al significato su cui si fonda è responsabile della convinzione che i media siano neutrali quando invece – McLuhan non si stanca di ripeterlo – ognuno ha una specifica forma e, di conseguenza, uno specifico potere o messaggio. Quest’ultimo, infatti, non è il contenuto ma l’effetto del medium, benché secoli di belles lettres abbiano convinto molti del contrario, ossia che “il medium è il messaggio” significhi che il medium coincide con il contenuto che veicola, e la sua azione sia la trasmissione di un’informazione. Ma anche la teoria standard della comunicazione, come ogni modello lineare, è meccanica.
All’angelismo, McLuhan oppone il robotismo (cfr. 1996): la capacità di essere in più luoghi e sensibili a più cose contemporaneamente che richiede lo sviluppo di identità a basso profilo dai confini mutevoli e la capacità di adattarsi all’istante ai mutamenti. Ai modelli sequenziali preferisce la pragmatica strutturalista, convinto che i media siano come le idee di Platone: forme-forze in grado di forgiare la nostra esperienza sia privata che pubblica, sia fisica che mentale. Se fanno accadere più che dare coscienza è perché la loro azione ambientale – il messaggio è anche un massaggio – è subliminale. Solo gli artisti e i pubblicitari riescono a intercettarla e a servirsi dei media consapevolmente. Gli altri li subiscono restandone ipnotizzati. E “understanding media”, il titolo dell’opus majus di McLuhan disgraziatamente tradotto in italiano con “gli strumenti del comunicare”, vuol dire “svegliatevi!”, “attrezzatevi con la sensibilità allo sfondo perduta dopo secoli di visione”.
Tuttavia, da quando l’epoca elettrica è cominciata, pare che solo i fascismi si siano destati e dotati di una sensibilità alle origini intese, anche, come provenienze, latenze, sintesi passive più che attive. Oggi come in passato solo i leader populisti sembrano aver compreso gli effetti dei media con cui convivono. Hitler e Mussolini quelli della radio: il “tamburo” dei totalitarismi; Berlusconi quelli della TV: il “timido gigante” dello show business; Meloni e Trump quelli dei social: le piattaforme del populismo (ad eccezione di quella dei social, le altre definizioni dei media si trovano in Understanding media, 1964). Vuoi perché al determinismo mediale la sinistra ha preferito quello economico sottovalutandone, però, l’aspetto pulsionale, o perché, in luogo della pervasività del sistema tecnico, come lo chiama Jacques Ellul, ha scelto di analizzare quella del sistema capitalistico (Ellul, che secondo il Godard di Adieu au langage ha capito tutto, per aver fatto il contrario è stato emarginato), la sinistra ha finito quasi sempre per rivestire i panni di quello che McLuhan apostrofa come “idiota tecnologico”. Ossessionata dai contenuti e costretta, quindi, ad aspettare l’avvento di un nuovo medium per comprendere l’effetto del precedente (la sindrome dello “specchietto retrovisore” che l’affetta è un prodotto del primato dell’intelletto sull’intuizione), ancora oggi non sembra stare sul pezzo, mordere il presente captando, come un’antenna, le tendenze che lo attraversano.
Si obietterà che il villaggio globale è un caos bifolco e primitivo e l’eccesso di cultura dei leader Dem gli interdice l’accesso a quella che Joseph Conrad battezzò “Africa interna”; oppure che il primitivo, come il semplice e l’immediato, è affare dei fascisti e non dei progressisti. Ma che sia chiusa in una torre d’avorio o solo fuori fuoco un dato è certo: la sinistra Dem non vince, né attrae. “Poco exiciting” l’ha definita un articolo del NYT di qualche settimana fa. Fiacca e inibita, avulsa tanto dal sociale che dal reale resta lì, amleticamente ferma a guardare e a valutare tutte le possibili opzioni terrorizzata all’idea di praticarne una. Il piano dell’effettualità, che è anzitutto simbolico, cioè psico-tecnico, le è precluso perché l’ossessione per il contenuto – una sostanza ideale come il possibile – è anche quella per il dover essere più che per l’essere, per l’ideologia più che per l’idea.
Emblematico, in proposito, è il fraintendimento dello slogan “ultracapitalista” che Musk lancia all’indomani della vittoria di Trump sul social che ha comprato anche grazie a soldi russi: “You are the media now” scrive agli esultanti elettori elogiando il trionfo del “citizen journalism” che, come giornalismo immersivo e soggettivo era stato previsto, insieme a tante altre cose, da McLuhan. In molti lo hanno commentato. Alcuni citando il gufo di Toronto ma, al solito, travisandone il pensiero. Altri, che sono la maggioranza, lo hanno criticato estrapolandone all’unanimità il significato: “Poveri cittadini, siete spacciati. Vi viene detto perché – siete gli strumenti di comunicazione nelle mani di un solo comunicatore – e ne gioite!”.
Eppure, benché sia un pubblicitario oltre che un artista, e dunque uno asservito alla potenza del soldo oltre che delle idee, ai suoi fedeli Musk suggeriva qualcosa di più sintonico col significato che McLuhan dà al termine “medium”. “You are the media now”, infatti, significa anche “you are the education, the law and the truth now”. Dunque, un sacco di atti oltre che uno strumento. Solo che, mentre per McLuhan essere un medium significa essere una potenza di agire o subire effetti (così Platone, nel Sofista, definisce l’essere), per Musk vuol dire avere un potere, cioè, in fondo, avere i media più che esserli. Ai suoi follower dice questo: “Avete voi, ora, il potere”. Trascura volutamente di dire che è un potere da lui governato attraverso la modifica di specifici filtri dell’algoritmo di X ma, come tutti gli umani in preda al deliro fallico e superomistico di onnipotenza, ignora, o forse sarebbe meglio dire rimuove, che il potere è sempre un verbo più che uno stato o una proprietà.
Il pubblicitario, in altre parole, fotte l’artista ingannandolo sulla volontà di potenza: la controversa espressione nietzschiana non significa “fare quel che si vuole” ma “volere quel che si può”, e che si può di necessità, senza scelta, la volontà essendo della potenza e questa non essendo nostra. “I beni più grandi – dice Platone nel Fedro – ci vengono dalla pazzia concessaci per dono divino”: una possessione più che un possesso. Senza, non c’è né creazione né vaticinio. L’artista crea “fuori di senno”, con “il dio dentro”, anche nella forma di un tema o un’ispirazione che lo prende come la potenza divina che, nello Ione, Platone metaforizza con un magnete, prende i poeti accordandoli assieme alla stregua di tanti tool-beings. Lo stesso accade ai mistici assunti a paradigma dell’azione eroica da Henri Bergson nelle Due fonti della morale e della religione. Ma anche i giovani e le giovani manifestanti a favore di “Donna, Vita e Libertà” o “Pro-Pal”, sciaguratamente lasciati soli, insieme ai “Fridays for Future”, dai sempre più soli Dem, sono rapiti da un significante sentito.
Ora, almeno a mia conoscenza, nessuno ha colto correttamente l’eco mcluhiana dello slogan di Musk, come nessuno, più in generale, ha convocato l’illuminante estetica dei media di McLuhan per comprendere l’ascesa dell’illuminismo nero. È nero, e quindi incomprensibile per principio da parte della bianca ragione. Al riguardo, non sembrano esser serviti gli ammonimenti di Max Horkheimer e Theodor Adorno nella loro Dialettica dell’illuminismo o quelli, coevi, di Jacques Lacan in Kant con Sade: un eccesso di bianchezza può generare l’ora più buia. E nemmeno sono serviti quelli precedenti di Spinoza – la ragione non può nulla contro la passione – rilanciati, per una macabra ironia della sorte, da Mussolini al congresso del Partito Socialista del 1912 a Reggio Emilia: “Che importa al proletariato – domanda il futuro Duce – di capire il socialismo come si capisce un teorema? Noi dobbiamo crederlo! È la fede che muove le montagne perché dà l’illusione che le montagne si muovano”. La conclusione non pare spinoziana, ossia razionalista: «L’illusione – afferma Mussolini – è forse l’unica realtà della vita» (De Felice 1995, p. 128). Eppure, anche Spinoza ammette che la visio sub specie aeterni deve avere effetto sull’immaginazione: la cima deve tornare alla base come il liberto, nel mito platonico, deve ridiscendere nella caverna dove giacciono, ancora, i fratelli imprigionati. McLuhan, nella sua critica all’intellettualismo alfabetico, lo ribadisce: Dio è vivo finché è percepito in un’esperienza diretta, ad esempio quella mistica; muore appena diviene un concetto della teologia. Cristo lo capiscono i bambini, non i dotti e il vero misticismo, che per il Bergson delle Due fonti ripassa la lettera dei dogmi per riscriverla in caratteri di fuoco, “non dice nulla a chi non l’ha in minima parte vissuto”. È un’affermazione populista, è vero. Ma di un populismo di cui bisogna tener conto se si vuole che le parole della politica incendino l’azione anziché sospenderla.
Bergson, però, è stato liquidato come uno spiritualista e McLuhan, il primo tra i cyberpunk, come un generalista che procedeva per “libera associazione accademica”. Il massimo che si è potuto fare è stato relegarlo in un grande colombario con gentile negligenza perché McLuhan studia i media, ma lo fa con “colpi di sonda” e, soprattutto, senza moralismi. È un peccato. Se si fosse ricevuto quest’essere dall’intelletto intuitivo e dalla “consapevolezza integrale” così simile a quella di altri due inascoltati veggenti sostenuti nelle loro visioni da un cristianesimo fervente, Teillhard de Chardin e Pavel Florensky, si sarebbe potuto ricevere altrimenti anche il senso di quell’ex tweet, dove altrimenti significa: come il motto di ogni demonologia e mistica che si rispetti.
Il richiamo a queste due concezioni irrazionali della creazione e dell’azione non è peregrino. Per l’utente divenuto incorporeo, come da ultimo ha mostrato un sondaggio definito “scioccante” dai sonnambuli benpensanti condotto presso i giovani del Regno Unito (il 52% è favorevole a un dittatore più che a un governo Dem), l’unico regime politico ragionevole, o alla sua portata, è totalitario. Nell’epoca elettrica, spiega McLuhan, lo Stato diventa religione perché, per rispondere al nuovo ambiente mediale, l’homo–cyborg ricorre, da un lato, all’occultismo, le percezioni extrasensoriali e altre forme di intervento psichico; dall’altro, si affida al “Superstato che sostituisce il sovrannaturale”, sovrannaturale, precisa McLuhan, che può anche prendere la forma di “mega macchinari” (1992, p. 144). La meccanica, infatti, esige la mistica e viceversa in virtù della legge biotecnologica della “doppia frenesia”: la rivisitazione bergsoniana della scienza alchemica dei massimi e dei minimi che tanto appassionava Giordano Bruno, una scheggia elettrica bruciata viva da un mare di stampa.
Al suo massimo, ogni tendenza si inverte nel suo contrario che, in quel momento, è al minimo, e vera magia – scrive Bruno alla fine del De Causa – è trarre l’uno dall’altro dopo aver trovato il punto dell’unione (2013, p. 473). È uno wishful thinking, si. Ma è di questo che abbiamo bisogno. Ecolandia somiglia al mondo omerico alla base del quale c’è un’inversione tra il vivente e il morto, lo scontro con un’esteriorità non dominabile e il confronto con un enigma che resta tale finché un intercessore più che un padrone, un rappresentante pulsionale più che istituzionale, riesce a scioglierlo. I giovani, non solo inglesi, che lo reclamano, possono oggi incontrarlo quando vanno a ballare trascinati da frequenze elettroniche modulate ad arte dai dj-stregoni o quando qualche altro sciamano li esorta ad assaltare il palazzo dell’impostura. Possiamo fare di meglio per loro? Possiamo fornire, a loro e al gigantesco corpo di macchine cui i più deficienti li paragonano, quel che Bergson, nelle Due fonti, chiama “supplemento d’anima”? Siamo capaci, come ci esorta McLuhan, di dare coscienza all’immensa rete mediale contrastando l’anestesia di molti e la violenza di pochi che la sua estensione comporta con una sinestesia di portata mondiale?
Per McLuhan, da quando lo Sputnik è stato lanciato in orbita e la Terra è diventata un’entità programmabile e controllabile, sono sorte sia una brama di sfruttamento che di cura, ed è a seconda che si provi l’una o l’altra che il socialismo – per sua natura “elettrico” – si configura come cosmista o cosmico, protezionista e volto alla conquista, o solidale e dedito all’ecologia. Ma anche la riduzione del mondo alle dimensioni di un “villaggio” ha generato due atteggiamenti: quello psicotico-paranoide di angoscia e quello pentecostale di comprensione e unità universale. Spetta all’umanità semi-schiacciata dal peso del progresso compiuto scegliere quale dei due sviluppare, a quale dio votarsi e da quale mania farsi prendere: quella patologica, umana troppo umana, della tirannia o quella divina della democrazia, la sola concezione politica capace di trascendere le società “chiuse”. Si dice che oggi non serva più ma, se ci si riflette bene, non è mai servita. Innaturale e lussuriosa come la filosofia di cui è gemella, essa è parimenti inutile all’homo sapiens faber preoccupato solo di adattarsi salvandosi la pelle dall’homo lupus. La sua essenza, sia per Bergson che per McLuhan, è evangelica; il suo motore è l’amore. Snobbarlo è da stolti ora che, come in passato, gli elettro-fascisti, sono più avanti di noi. Anziché aspettare di raccogliere, come ottant’anni fa, i cocci della fulminante festa di matrimonio tra autocrati che s’intendono al volo, prima che sul libresco tavolino, bisogna paracadutarsi sulla scena con risposte rapide partorite in quello stato di contemplazione profonda non in senso estensivo che è il pensiero: un rave tra automi spirituali. Non solo gli affari, infatti, incarnano la mente collettiva al potere. Musk lo sa, ed è al pensiero che ricorre quando entra in “modalità demoniaca”. Perciò, se ci affrettiamo ad accettare che la cultura letteraria è ormai uno svago riservato a pochi, come il cavallo dopo l’avvento della carrozza, in quanto Europei possiamo forse mettere in campo qualcosa di meglio che una sanzione per combatterlo.
Riferimenti bibliografici
G. Bruno, De la causa, principio et uno, in Opere italiane, Utet, Novara 2013.
R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario, Einaudi, Torino 1965.
M. McLuhan, La coscienza elettrica e la chiesa, in Id., L’uomo e il suo messaggio, Le leggi dei media, la violenza, l’ecologia e la religione, SugarCo Edizioni, Milano 1992.
M. McLuhan, B. R. Powers, Il villaggio globale. XXI secolo, trasformazioni nella vita e nei media, SugarCo, Milano 1996.