Come per tanti mezzi cosiddetti d’“espressione”, anche per la fotografia non si può fare a meno di collocare qualsiasi discorso critico/estetico su di essa in un orizzonte di senso ben preciso, fatto – per esempio – di sistemi di segni che si intrecciano tra loro fino a formare reti complesse in cui possono rimanere catturati tanto approcci di ieri quanto quelli di oggi. In questo contesto, una delle aree più “fitte” e “robuste” è senz’altro quella riconducibile alla relazione tra mezzo fotografico e una certa idea di documentazione sociale. Si tratta di un legame che rivela, fra le tante cose, un consolidamento culturale ben preciso. Se si vuole, lo possiamo definire come la necessità di pensare l’immagine fotografica in una prospettiva in forma di montaggio, una prospettiva che trova nella letteratura di viaggio, e nei campi a questa più prossimi o tangenti (reportage, antropologia culturale, ecc.), uno degli sbocchi più creativamente interessanti.
In Italia, molti dei libri pubblicati dalla casa editrice Humboldt Books offrono diversi esempi interessanti in merito, incluse le loro ultime uscite, fra cui vale la pena segnalare Sicilia 1966/2008 di Gianni Berengo Gardin ed Etna. La lingua del fuoco di Nadia Terranova e Stefano Graziani. Sono due libri apparentemente accomunabili per il macro-argomento che trattano o toccano – la Sicilia – ma nello stesso tempo sono anche molto diversi tra loro per il come sono stati concepiti, vista la loro struttura. Da una parte c’è, infatti, un bel volumetto che funge da piccola antologia di scatti siciliani, in bianco e nero, di un maestro assoluto della fotografia italiana e non solo, cioè Berengo Gardin. Dall’altra abbiamo invece un libro sicuramente più eterogeneo sul piano formale, poiché concepito come una sorta di dialogo aperto tra scrittura e fotografia. Inoltre, il lavoro di Terranova e Graziani si focalizza su un tema specifico che – si sa – è fra quelli che spiccano maggiormente ogni volta che si evoca l’immaginario siciliano, e cioè l’Etna.
Prendiamo ora tra le mani il primo libro citato. Se si ha un po’ di familiarità con lo stile fotografico di Berengo Gardin, si sa benissimo che ci si può trovare di fronte a scatti in cui, per un motivo o per un altro, ciò che si vede può includere un qualche elemento particolare, magari vistoso ma mai eccessivamente artificioso, riconducibile – forse – a un certo gusto per un eclettismo formale che sembra caratterizzare l’operato del nostro. Da questo punto di vista, Sicilia 1966/2008 non fa eccezione. Le fotografie raccolte in questo libretto presentano un contenuto potenzialmente “forte” sul piano specificamente visivo – alcune cerimonie religiose siciliane, con tutto il loro insieme di caratterizzazioni annesse e connesse – ma senza che questa “enfasi” latente prenda il sopravvento sulla geometria compositiva delle singole immagini.
In Etna. La lingua del fuoco la componente fotografica sembra invece presentarsi con altre caratteristiche. Scatti in bianco e nero di Stefano Graziani costellano il testo della scrittrice Nadia Terranova («La lingua del fuoco»), creando un contrappunto alle volte allusivo ma mai didascalico. Finita questa sezione, c’è poi una selezione con altri scatti di Graziani – questa volta è una sezione più corposa, e sviluppata a colori – che va a formare la seconda parte del libro, «Breve viaggio o reportage», un contributo che funge da arricchimento/contestualizzazione di quanto letto e visto prima. In questa seconda serie di immagini troviamo un po’ di tutto: binari ferroviari, elementi particolari di alcune costruzioni, istantanee paesaggistiche, la presenza dell’uomo in determinate situazioni quotidiane, scorci urbani, spazi religiosi, e – ovviamente – i fumi del vulcano, con il suo territorio circostante. Lo sguardo di Graziani coglie tutto questo senza far emergere connotazioni particolari sul piano formale. Se si vuole, il suo lavoro lo si può definire come una sorta di mappatura.
Ora, se proviamo a pensare insieme Sicilia 1966/2008 ed Etna. La lingua del fuoco, e quindi immaginare gli scatti contenuti in questi due libri come un unico, virtuale palinsesto di immagini, si può forse notare qualcosa di interessante dal punto di vista puramente fotografico. Al netto di una somiglianza/affinità del tema in questione, l’impressione è che si avrebbe una sorta di fulminea ricapitolazione di quelle che sono state, nel secolo scorso – e forse ancora oggi, con alcuni distinguo – due delle “tendenze” principali della fotografia di cultura e pratica analogica. Sono tendenze che potremmo sintetizzare con l’evocazione di due grandi nomi della storia della fotografia mondiale: Henri Cartier-Bresson, per Berengo Gardin, e Robert Capa, con riferimento a Graziani. Nel primo caso, quello che sottintenderebbe il nome dell’artista francese sarebbe una certa concezione della fotografia incline al soffermarsi sulla “cura” di ogni scatto singolo, al fine di estrarre la massima potenzialità lirico-astratta da quanto registrato. Invece, nel secondo caso, evocare Capa sarebbe sinonimo di un approccio alla fotografia concepita in modo più funzionalistico, per cui all’attenzione sul singolo scatto si aggiungerebbe la necessità di costruire un discorso su un tema specifico, che si attuerebbe attraverso il ricorso a più immagini, organizzate in un ordine specifico. In sintesi, dunque, coniugare le due tendenze citate sarebbe un po’ come delineare una pratica fotografica capace tanto di farci intravedere, di un insieme di immagini che documentano una determinata realtà, caratteristiche che offuscherebbero qualsiasi equivalenza tra presupposti di visione pura e la possibilità concreta di una tale visione. Sia sul singolo istante, sia in sequenza, si avrebbe sempre un “qualcosa” capace di far deviare lo sguardo verso aspetti non immediatamente visivi, e per la cui identificazione ci si appoggia infatti all’uso di termini come “lirismo” o “discorso”.
Tornando ai libri in questione, che cosa può quindi suggerirci il riferimento a Bresson e Capa a proposito della Sicilia fotografata da Berengo Gardin e da Graziani? Fra gli spunti possibili si potrebbe pensare al seguente: che la pratica fotografica, oltre a servire come nostro primo approccio visivo alla percezione del reale, deve anche essere considerata una prassi in grado di rendere palese, fin da subito, la complessità insita in tale percezione, specie se in relazione alla convinzione che un’immagine, o una serie di immagini, abbiano la funzione primaria di identificare o caratterizzare un luogo specifico. Il valore degli scatti di Berengo Gardin che ci presentano momenti di cerimonie religiose siciliane non starebbe tanto nel loro evocare una certa idea di Sicilia quanto, invece, nel suggerire come quelle scene siano plasticamente comparabili a contesti simili ma in altri luoghi (di questo avviso è pure l’antropologo Franco La Cecla, vista la sua postfazione al libro). Ma un effetto di spiazzamento simile lo si avrebbe anche con le fotografie di Graziani, che lungi dall’offrire una illustrazione chiara e diretta dell’Etna – e per estensione metaforica, del territorio siciliano – ci permettono di costruirci un percorso di avvicinamento mentale al vulcano. Si direbbe allora che la fotografia, quando poggia su basi solide, ci ricorda che si danno “buone” immagini in una sorta di spazio-tempo immaginario, collocabile idealmente tra l’evocazione del loro luogo di riferimento originario e la presenza di tracce della mera registrazione visiva. È in questo intervallo – limiti esclusi – che può emergere una visione della realtà degna di questo nome, in cui sensibile e intelligibile sono intrinsecamente legati.
Stefano Graziani, Nadia Terranova, Etna. La lingua del fuoco, Humboldt, Milano 2024.
Gianni Berengo Gardin, Sicilia 1966/2008, Humboldt, Milano 2024.