Jeanne Moreau.
Ascensore per il patibolo (Malle, 1958).

Quando ho saputo della scomparsa di Jeanne Moreau (esattamente tre mesi fa, il 31 luglio 2017) ho provato subito a capire se tra le infinite immagini di lei che mi si facevano incontro ce ne fosse una o più d’una – un’inquadratura, una scena, una sequenza – con cui, più e meglio di altre, in quel momento, mi fosse possibile ricordarla. Certo che avevo in mente le immagini che tutti hanno in mente: la camminata notturna screziata da Miles Davis in Ascensore per il patibolo (Malle, 1957), la corsa a perdifiato (o “Le tourbillon de la vie” o il tragico volo finale) di Jules e Jim (Truffaut, 1962). Come tutte le immagini leggendarie – quelle che appartengono a ognuno e che ognuno conosce e ricorda –, anche queste che ho appena evocato sono difficili da avvicinare, hanno in sé qualcosa di intrattabile e forse per questo le ho presto messe da parte.

Ho allora incontrato quelle immagini di Moreau, pure note e importanti, che tuttavia avevano valore soprattutto per me, per uno spettatore singolo, senza che potessi subito sapere, ripensandole, se esso fosse di tipo espressivo o puramente affettivo: ecco allora, che so, l’immobilità bianca e attonita di Moreau, di profilo, alla fine di Storia immortale (Welles, 1968) o un primo piano tutto fatto d’occhi chiusi all’improvviso, inaspettatamente, in Moderato cantabile (Brook, 1960). Ma tra immagini leggendarie e irraggiamenti espressivi o emotivi del lavoro di un’attrice, mi si faceva avanti di continuo, in modo insistente, un altro frammento, e precisamente una lunga inquadratura che quasi mi infastidiva per il suo essere appunto invasiva, ma anche, almeno così mi sembrava, per il suo essere in parte fuori luogo. Fuori luogo perché lì Jeanne Moreau si vede appena. Meglio, si vede d’un soffio, di volata, per qualche istante. Mi riferisco alla straordinaria apertura de La grande peccatrice (1962) di Jacques Demy: un iris sul volto dell’attrice, l’inquadratura si apre e Moreau, biondissima, interamente vestita di chiaro – nel magnifico bianco e nero di Jean Rabier –, prende fiato da una sigaretta camminando da sola sulla Promenade des Anglais, a Nizza. È, nel film, un’inveterata giocatrice d’azzardo ed avanza verso la macchina da presa. Che però fin dai primissimi istanti, con un repentino, energico movimento all’indietro, su cui subito si innesta la musica di Michel Legrand, si allontana da lei, sfila via velocissima e continua lungamente a correre.

Ho capito più tardi perché questa inquadratura insisteva tra le altre: sapendo che Jeanne Moreau era scomparsa, devo aver sentito, attraverso il cinema – attraverso lo sguardo tutelare di un autore sempre ammirato – che qualcosa si era allontanato da lei, l’aveva abbandonata, lasciata sola, guizzando via dai suoi occhi, dalla sua voce roca, dal suo corpo. Quella intensa fuga che apre il film di Demy deve aver preso posto, nei miei pensieri, come una figura della vita che se ne andava (e però, dopo aver sciolto il motivo di quell’insistenza, ho dovuto accostare, non senza affanno, nella mia mente, la grazia di quel camera car disteso a gran velocità e l’orrore abbattutosi sulla Promenade poco più di un anno fa).

Certo, l’esemplare combinazione tra un corpo in azione, la sovraesposizione dello sguardo e l’inclinazione a mostrare qualcosa come fosse sempre di sguincio, di traverso, per caso – l’inclinazione a mostrare qualcosa come ciò che si incontra e allo stesso tempo come ciò che si costruisce –, che è quanto sostanzia quella inquadratura, costituisce uno degli stilemi della Nouvelle Vague, di cui Moreau è stata senza dubbio un emblema. Connotando in profondità film che per qualche via anticipavano il fenomeno – Ascensore per il patibolo e, in parte, Les amants (1958), dello stesso Malle, che la ritroverà poi in Fuoco fatuo (1963) e, con Bardot, in Viva Maria! (1965) –, o quelli che propriamente informavano il movimento – Jules e Jim di Truffaut, naturalmente, per cui reciterà ancora ne La sposa in nero (1968), o appunto La grande peccatrice –, talvolta semplicemente impreziosendoli con un cameo – I quattrocento colpi (1959, Truffaut), La donna è donna (1961, Godard) –, Jeanne Moreau ha segnato la Nouvelle Vague in modo indelebile.

Ma quella relazione tra corpo attoriale, stile come assunzione di una postura, anche morale, e perpetuo sbilanciamento delle forme verso il sentimento e la riflessione della e sulla vita è, più in generale, una delle grandi direttrici dell’intero cinema moderno. Moreau ha legato il suo nome a quello dei grandi moderni – e più in generale a quello degli autori, nel senso forte che questo termine assume nel cinema del secondo dopoguerra – e la lettura di questi nomi, a ripercorrere la filmografia dell’attrice, è semplicemente impressionante: Antonioni (La notte, 1961), Welles (Il processo, 1962; Falstaff, 1966; Storia immortale; l’incompiuto The Deep, 1970), Losey (Eva, 1962; Mr. Klein, 1976 e, più avanti, La truite, 1982), Buñuel (Il diario di una cameriera, 1964), Brook (Moderato cantabile, 1960) e Duras (Nathalie Granger, 1972), ma anche Richardson (E il diavolo ha riso, 1966; Il marinaio del Gibilterra, 1967), l’ultimo Renoir (Il piccolo teatro di Jean Renoir, 1969), l’ultimo Fassbinder (Querelle de Brest, 1982). (E ancora, ben oltre la stagione “storica” della modernità, il Wenders di Fino alla fine del mondo, 1991, l’Angelopoulos de Il passo sospeso della cicogna, 1991, ancora Antonioni – e Wenders – di Al di là delle nuvole, 1995).

Dotata di rara sensualità e di una non convenzionale bellezza, capace di corrispondere con un’intensità sorprendente e del tutto originale ai toni drammatici, ma anche di comporre con altrettanta compiutezza quelli più lievi, energica e penetrante ma sempre versatile, Moreau ha accordato la sua recitazione insieme libera e rigorosa con la libertà e il rigore che in modi, forme, livelli diversi hanno abitato la proteiforme stagione della modernità. Se rivedo immagini di Jeanne Moreau, penso al suo modo di segnare l’inquadratura tra istinto e applicazione, esattezza e libertà e non a ciò che chiamiamo l’intento di rappresentare la vita ma alla possibilità, più rara e più indeterminata insieme, di farla sentire in immagine, di comporne il sentimento in ogni sguardo, in ogni movimento, in ogni gesto.

Ripensare, tutta intera, la formidabile carriera di Jeanne Moreau significa allora allucinare a ritroso nomi, espressioni, parole, posture, movimenti, sguardi e gesti – un multiforme, mosso, caleidoscopico sentimento della vita – cui, in decenni di cinema, ha dato forma e di cui qui è impossibile rendere adeguatamente conto.

Ho detto che Moreau ha lasciato un segno indelebile nella Nouvelle Vague e nel cinema moderno. E tuttavia questa attrice che ha esordito al primo Festival di Avignone di Jean Vilar, che ha recitato, con successo crescente, alla Comédie-Française, al Théâtre National Populaire dello stesso Vilar e altrove e che, dopo le prime prove su grande schermo, ha trovato la notorietà internazionale con Ascensore per il patibolo, poi con Les amants (ma rivedetela, in un ruolo di fianco, un poco prima, in un uno dei Becker più grandi, Grisbì, 1954), non appartiene a una o a più d’una delle stagioni del cinema, ma, assai più semplicemente, al cinema tout court, che ha attraversato, a di là delle catalogazioni, delle atmosfere, degli stili più diversi (ancora: da Marcel Ophüls a Frankenheimer, dall’ultimo film di un altro maestro, Kazan, a Mocky, da Téchiné a Besson), con la sua inconfondibile presenza e fin dentro il nostro tempo più recente (Ozon, Tsai Ming-liang, Gitai, e giù fino a trovare De Oliveira per Gébo et l’ombre, 2012). Il quadro, largamente incompleto, si può chiudere: Jeanne Moreau è stata infine regista (Scene di un’amicizia tra donne, 1976; L’adolescente, 1978 e il documentario Lillian Gish, 1983) – anche teatrale, nella tarda maturità – e ha cantato come ognuno sa.

Qualcosa, dicevo, si è allontanato da lei e forse per questo la rivedevo, d’un soffio, di volata, in cima a una lunga inquadratura. Ma è davvero così? Il cinema, per fortuna, è lì da sempre per (illuderci di) trattenere quello che se ne va.

Riferimenti bibliografici
V. Giacci, Jeanne Moreau, in Enciclopedia del cinema Treccani, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2004, ad vocem.
S. Loisy, J.-L. Béjo, Jeanne Moreau. Destin d’actrice, Carpentier, Paris 2016.

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